Drigo - gli uccelli non muoiono mai

Gli uccelli non muoiono mai

Il cammino della vita non è certo una linea retta ma un insieme di linee curve con cambi di direzione, tornanti, sentieri erbosi e rocciosi, faticose salite e discese insidiose. L’autore è un medico che ha perso da poco suo padre lungo un sentiero di montagna. Questo suo primo libro si potrebbe considerare un modo per ricordarlo e onoralo camminando lungo i suoi sentieri accompagnato dal figlio quasi adolescente. Quattro giorni di cammino lento e attento su sentieri ben conosciuti da quanti frequentano le Dolomiti Feltrine, considerate un po’ secondarie rispetto a quelle più note del Cortinese.

Sembra un canovaccio quasi scontato, un escursionista si aspetta di ritrovarsi sul quel sentiero già percorso e presso quel rifugio ben conosciuto. Ma è sufficiente aprire il libro con l’ouverture del violoncellista Mario Brunello per scoprire, proprio scoprire che, camminando, non si raggiungono solo delle mete più o meno note ma si disvelano gioielli, pietre preziose, colori, storie, emozioni, visioni.

A leggere il prologo dell’autore viene in mente il Montale di Ossi di seppia, "Non chiederci la parola", perché Drigo elenca una lunga serie di NON, ovvero cosa non è questo libro. Andiamo oltre come in montagna, perché questo testo è principalmente amore verso: la natura, il tempo di un passo lento, i fiori, le rocce, le favole dei monti pallidi, i ricordi che si sovrappongono alla mappa scala 1:25.000. E la storia umana che lega i miti greci ai fiori più belli. Quanta strada si può fare fermandoci ad annusare la nigritella, orchidea che profuma di …..merendina! Sì proprio così può rispondere un ragazzo che della vaniglia conosce il sentore nelle merendine cellofanate. Da padre l’autore accoglie la risposta perché comunque suo figlio si è inchinato per annusare. Amore per la musica che accompagna le pagine tra la realtà del Rifugio Dal Piaz e la fantasia. Intreccio tra le vite di pazienti con le loro malattie, psicosomatiche o psicoaffettive come Pierìn innamorato dell’acqua, o meglio delle mitica anguana che nelle pozze cristalline abita. O Chino che disprezza senza mezzi termini gli escursionisti sempre di corsa che sembrano avere un unico scopo raggiungere cime e scendere nel minor tempo possibile per poi raccontarlo. Ma di quelle cime non conoscono nemmeno il nome. Lui, Chino le ha battezzate tutte perché tutto deve avere un nome per essere riconosciuto.
E il dolore? Dove troviamo il dolore della perdita? Il bambino è turbato dalla pianta carnivora che avvolge la formica e se la mangia. Ma di uccelli morti non ne vede! Già sono pasto di qualche predatore, magari umano. E pone la domanda: ma dove sono gli uccelli morti? Gli uccelli non muoiono mai vanno a volare da un’altra parte è la risposta del padre. Già chi muore vola in un altro cielo! E senza citarlo pensa a suo padre e a se stesso quando se ne andrà.

Lasciamo al lettore curioso scoprire le tante storie, di miti, leggende e di umani legati a questa terra. Citando la zia Dirce l’autore ricorda sempre che “la vita non è un’autostrada”. Sperimentando una lenta camminata lungo un sinuoso sentiero di montagna, senza la bramosia di raggiungere una cima, ciascuno può verificare che, solo passo dopo passo, possiamo cogliere quanto correndo non vediamo.

Qualche escursionista del sabato con ciaspole, ramponi e cronometro al polso può non apprezzare questo scorrere delle parole dell’autore, le sue divagazioni mitologiche, botaniche o musicali. Ma a pensarci bene il divagare è un mestiere antico dei Sapiens, perché se non avessimo cambiato direzione avremmo perso occasioni uniche di conoscenza e sapienza.

Il cammino della vita non è certo una linea retta ma un insieme di linee curve con cambi di direzione, tornanti, sentieri erbosi e rocciosi, faticose salite e discese insidiose. L’autore è un medico che ha perso da poco suo padre lungo un sentiero di montagna. Questo suo primo libro si potrebbe considerare un modo per ricordarlo e onoralo camminando lungo i suoi sentieri accompagnato dal figlio quasi adolescente. Quattro giorni di cammino lento e attento su sentieri ben conosciuti da quanti frequentano le Dolomiti Feltrine, considerate un po’ secondarie rispetto a quelle più note del Cortinese.

Sembra un canovaccio quasi scontato, un escursionista si aspetta di ritrovarsi sul quel sentiero già percorso e presso quel rifugio ben conosciuto. Ma è sufficiente aprire il libro con l’ouverture del violoncellista Mario Brunello per scoprire, proprio scoprire che, camminando, non si raggiungono solo delle mete più o meno note ma si disvelano gioielli, pietre preziose, colori, storie, emozioni, visioni.

A leggere il prologo dell’autore viene in mente il Montale di Ossi di seppia, non chiederci la parola, perché Drigo elenca una lunga serie di NON, ovvero cosa non è questo libro. Andiamo oltre come in montagna, perché questo testo è principalmente amore verso: la natura, il tempo di un passo lento, i fiori, le rocce, le favole dei monti pallidi, i ricordi che si sovrappongono alla mappa scala 1:25.000. E la storia umana che lega i miti greci ai fiori più belli. Quanta strada si può fare fermandoci ad annusare la nigritella, orchidea che profuma di …..merendina! Sì proprio così può rispondere un ragazzo che della vaniglia conosce il sentore nelle merendine cellofanate. Da padre l’autore accoglie la risposta perché comunque suo figlio si è inchinato per annusare. Amore per la musica che accompagna le pagine tra la realtà del Rifugio Dal Piaz e la fantasia. Intreccio tra le vite di pazienti con le loro malattie, psicosomatiche o psicoaffettive come Pierìn innamorato dell’acqua, o meglio delle mitica anguana che nelle pozze cristalline abita. O Chino che disprezza senza mezzi termini gli escursionisti sempre di corsa che sembrano avere un unico scopo raggiungere cime e scendere nel minor tempo possibile per poi raccontarlo. Ma di quelle cime non conoscono nemmeno il nome. Lui, Chino le ha battezzate tutte perché tutto deve avere un nome per essere riconosciuto.

E il dolore? Dove troviamo il dolore della perdita? Il bambino è turbato dalla pianta carnivora che avvolge la formica e se la mangia. Ma di uccelli morti non ne vede! Già sono pasto di qualche predatore, magari umano. E pone la domanda: ma dove sono gli uccelli morti? Gli uccelli non muoiono mai vanno a volare da un’altra parte è la risposta del padre. Già chi muore vola in un altro cielo! E senza citarlo pensa a suo padre e a se stesso quando se ne andrà. Lasciamo al lettore curioso scoprire le tante storie, di miti, leggende e di umani legati a questa terra. Citando la zia Dirce l’autore ricorda sempre che “la vita non è un’autostrada”. Sperimentando una lenta camminata lungo un sinuoso sentiero di montagna, senza la bramosia di raggiungere una cima, ciascuno può verificare che, solo passo dopo passo, possiamo cogliere quanto correndo non vediamo.
Qualche escursionista del sabato con ciaspole, ramponi e cronometro al polso può non apprezzare questo scorrere delle parole dell’autore, le sue divagazioni mitologiche, botaniche o musicali. Ma a pensarci bene il divagare è un mestiere antico dei Sapiens, perché se non avessimo cambiato direzione avremmo perso occasioni uniche di conoscenza e sapienza.

Alberta Vittadello

fiori selvatici

Fiori selvatici

Traduzione di Luca Castelletti
Illustrazioni di Barry Moser


Henry David Thoreau, filosofo, scrittore e poeta statunitense, nasce a Concord, nel Massachusetts, il 12 luglio 1817, muore nel 1862.
Si laurea in filosofia ad Harvard nel 1837.  È animato da un forte interesse estetico, filosofico e spirituale per le filosofie orientali, per la lingua greca e latina e per la natura. Propugna uno stile di vita a stretto contatto con questa e, gradualmente, studiando dal punto di vista scientifico piante, alberi e fiori, ne diventa profondo conoscitore. Fu uno degli scrittori e filosofi più amati negli Stati Uniti nella sua epoca.
In ogni stagione dell'anno Thoreau si metteva in cammino tra campi, boschi e paludi, esplorando e registrando tutto sui celebri Journal, i suoi diari.
A partire dal 1850, quando compie trentatré anni, dà sistemazione alle sue conoscenze botaniche che ha approfondito soprattutto nei due anni di soggiorno in isolamento in mezzo alla Natura nei pressi de lago Walden (nel 1854 pubblica il libro “Walden, ovvero vita nei boschi”, testo ecologista diffuso e  amato).

"Fiori selvatici", il libro appena pubblicato da Piano B, offre un'ampia selezione degli scritti più belli di Henry David Thoreau ispirati agli alberi, alle piante e ai fiori incontrati durante le lunghe escursioni botaniche che impegnarono gli ultimi dieci anni della sua vita. Le descrizioni sono sotto forma di diario, Thoreau segue l'evolversi di piante e fiori nelle stagioni e nei giorni, con la passione, la delicatezza e l’emozione di chi della Natura ha fatto la propria madre.
Più di duecento sono le illustrazioni in bianco e nero dell’artista e illustratore Barry Moser. Illuminante, nella prima parte del libro, il saggio “Thoreau e la botanica” di Ray Angel che, grande esperto della flora nordamericana, delinea la figura di Thoreau e il suo passaggio dalla passione spirituale e filosofica per gli elementi naturali, alla conoscenza accuratamente scientifica di piante, alberi e fiori.

La Redazione

L

Il Testamento di Heiligenstadt e Quaderni di conversazione, di Ludwig Van Beethoven

Traduzione di Sandro Cappelletto 


Ascoltando le composizioni di L.V. Beethoven credo sia impossibile non pensare alla sua vita. La musica lo ha consolato, gli ha permesso di aggrapparsi alla vita, è una sua affermazione “la mia arte solo quella mi ha trattenuto”. Trattenuto dal chiudere il suo capitolo terreno fatto di sofferenza fisica, di mancanza di affetti stabili e di una propria famiglia. Quanto avrebbe perso l’umanità senza le note della sonata Appassionata o della Nona sinfonia non è dato sapere. Perché quelle note le abbiamo, ci entrano, ci appassionano, entusiasmano, addolorano. Troviamo questo complesso mondo emotivo nel cosiddetto testamento indirizzato ai fratelli, uno citato, Kaspar Karl e uno sottinteso con i puntini di sospensione dove avrebbe dovuto comparire Nicolaus Johann. Già, Johann un nome che il Ludwig vuole dimenticare: quel padre alcolizzato e autoritario non in grado di sostenere i figli nella loro crescita. In tutti gli scritti del musicista sia nel testamento di Heiligenstadt che nei quaderni di conversazione il nome del padre e del fratello omonimo non viene mai citato.

Ai Quaderni di conversazione scritti tra il 1818 e il 1827, anni in cui il problema all’udito si acuisce e la sordità diviene completa, Beethoven affida la sua quotidianità. Dal disagio fisico, alle beghe giudiziarie per l’affido del nipote Karl, figlio della cognata Johanna. Un Ludwig che si occupa di interessi bancari, di conti da far quadrare giorno dopo giorno. Troviamo quindi la retta per il tutore del nipote, oltre che la scelta delle figure cui affidarlo per toglierlo dall’influenza materna, la stufa da scegliere per rendere vivibile l’ambiente, sarà di ceramica più efficiente di quella metallica. E ancora il suo ritratto più famoso opera di Joseph Karl Stieler, mentre compone la Missa Solemnis in D. Quante volte ci si sofferma su quello sguardo, severo? Ispirato, Deciso? Irato? Tutti questi aggettivi insieme. Gli occhi rivolti verso l’alto come spesso fanno le persone che non sentono perché i suoni a loro vengono da dentro, dal cervello che sta sopra. L. V. Beethoven si mette in posa, una due tre volte per ore senza protestare, lui che è sempre pieno di impegni sta in posa paziente come chiede il pittore. Quante note percorrono la sua mente possiamo solo intuirlo. E troviamo anche un Beethoven a cena con gli amici, sempre con il suo quaderno in mano, unico strumento per comunicare, per continuare il dialogo con gli altri e per condividere un bicchiere di fresco vino Tokaji.
Sandro Cappelletto traduce e commenta i quaderni permettendo al lettore di scoprire un Beethoven appassionato di lettura, altro elemento che lo conforta, filosofia e arte. Interessato nel contempo agli avvenimenti sociali e politici delle prime decadi del 1800. E sono sempre presenti emozioni forti: passione, sofferenza, eccitazione, dolore, trionfo, dolcezza. Emozioni che ci vengono trasmesse dalla sua musica come quando si ascolta a occhi chiusi l’Eroica dedicata Napoleone che “tradisce” il pensiero di Ludwig, oppure il dolcissimo incedere della sonata per Elisa.

Alberta Vittadello

kulesko ecopessimismo

Ecopessimismo

Sentieri nell’Antropocene futuro


Ecopessimismo come ancora di salvezza per il mondo. Questa la tesi di Claudio Kulesko nel saggio appena pubblicato.
Viviamo nell’epoca della scomparsa della Natura perché le teorie filosofiche e culturali “hanno sancito il predominio della prassi sulle rigide strutture imposte dalla leggi naturali”. “Basta entrare in una qualsiasi facoltà di filosofia, studi culturali o letteratura contemporanea per rendersi conto di come la distinzione tra natura e cultura appartenga ormai al passato…. Le teorie filosofiche e culturali hanno sancito il predominio della prassi – o, meglio, – della performatività sulle rigide strutture imposte dalla leggi naturali.”
Nel collasso climatico e ambientale contemporaneo, l'ecopessimismo si rivela allora la forma più produttiva del pensiero speculativo, un modo per anticipare e metabolizzare i pericoli futuri, per prepararsi al peggio e smettere di sperare nell’intervento di un qualche deus ex machina.
La cultura incarnata nel termine Antropocene, e intesa soprattutto come tecnica, determina le principali catastrofi per gli esseri umani e non umani. L’Antropocene cova in sé un enigma e una profezia. Cosa succederebbe se l’era dell’essere umano coincidesse con l’era nella quale l’era dell’essere umano scomparisse per sempre? Per Kulesko sarebbe la sesta estinzione di massa in cui si potrebbero verificare esplosioni a catena che condurrebbero noi umani nel vortice della disperazione e morte cui abbiamo condannato le altre specie. Per questo paragona l’Antropocene a una nuova Sfinge, qualcosa di enigmatico e difficile da essere interpretato in campo scientifico, filosofico e immaginario, ma capace di rivelarci qualcosa di più su noi stessi e l’universo che abitiamo in costante precarietà di equilibrio. All’ombra di tale incertezza "abbandonare a se stesso metà del Pianeta significherebbe qualcosa di più che tutelare le specie in via di estinzione. Si tratterebbe di un atto di resa, di una dichiarazione di umiltà e impotenza dinanzi all’immensa forza distruttiva della natura". Su queste riflessioni si snoda tutto il viaggio di Kulesko, supportato da documenti bibliografici e testimonianze letterarie, scientifiche e filosofiche su sentieri che vanno dal passato, al presente e al futuro. A tal proposito significativi i capitoli: “2034 d. C. – Preparare se stessi” e “2023 d.C. – Di grotte e di lupi” nel quale più direttamente è presente l’Autore.
Alla fine del libro, l’augurio a lettrici e lettori di sopravvivere ai prossimi decenni, di essere capaci di costruire nuovi legami con gli esseri umani, l’augurio di continuare a perdersi e ritrovarsi attraversando ambienti sull’orlo del collasso, stando sulle proprie gambe "quando i lupi circonderanno le case nel cuore della notte mostrando i loro occhi scuri e intelligenti splendere nel buio".
“Buon Antropocene a tutte e tutti”, il suo congedo.

La Redazione

Suolo come paesaggio

Suolo come paesaggio. Nature, attraversamenti e immersioni, nuove topografie

Fondazione Benetton Studi Ricerche-Antiga, Treviso 2022
180 pagine, 88 illustrazioni


Di suolo non possiamo più parlare solo relativamente al suo sfruttamento sia agricolo che edificabile o come entità che compromette la stabilità delle strutture e infrastrutture antropiche. Gli autori contribuiscono a diffondere la consapevolezza che il suolo è una realtà viva che ci permette di vivere. Esso è tessuto connettivo, nutrimento e processo vitale che ci accompagna, è dimensione fisica, sociale, estetica nella quale risiede la sostanza dei luoghi abitati e il senso della nostra appartenenza al paesaggio e alla Terra. Il nostro pianeta manifesta resilienza e capacità di mutare e adattarsi alle nostre azioni spesso sconsiderate. Visitando una cava abbandonata sia essa di selce, di calcare o di trachite vediamo come, a partire dalle piante pioniere e ai successivi arbusti e alberi, ritroviamo un suolo. Ovvero i vegetali se lo ricostruiscono, così come accade nelle colate d’asfalto, che si fessurano lasciando spazio a semi e radici di riappropriarsi del suolo sepolto.
Spesso il concetto di suolo richiama quello di giardino a iniziare dal biblico Eden donato da Dio ad Adamo appena plasmato con l’argilla. Le stesse radici linguistiche, Adam che significa uomo e Adamah che significa suolo, stanno nella genesi. Diversi pittori realizzano opere che hanno come soggetto giardini, come Bruegel il vecchio con il suo Eden, immagini a colori che diventano un valore aggiunto per questo testo.
Le mani nella terra per servirla, proteggerla, custodirla lavorarla proprio come nel giardino biblico. Conoscerne la granulometria, la litologia, l’umidità e rispettarne gli organismi anche quelli microbici, questo fa un buon giardiniere ma anche un buon agricoltore che conosce da sempre l’importanza dei lombrichi e degli organismi bioriduttori. Lo stesso Darwin dedica il suo ultimo libro ai lombrichi e all’importante ruolo che hanno questi silenziosi anellidi nella formazione del suolo.
Che dire se il suolo diventa anche un’esperienza estetica? Superando gli stereotipi delle discipline è possibile ampliare l’orizzonte in modo in-disciplinato. Il suolo come forma artistica, la realtà ctonica, sconosciuta, sotterranea. Spietrare, scavare, osservare gli orizzonti litologici diversi, immergersi in un formicaio è come disvelare l’intimo del suolo terra. Questo testo non si occupa, infatti, solo di scienza. Gli autori al di fuori delle discipline preposte, colgono e fanno cogliere al lettore, gli aspetti artistici e la bellezza intrinseca negli strati del terreno. Ecco perché il suolo diviene paesaggio nel quale immergersi e immedesimarsi.

Alberta Vittadello

il giro del mondo nell'Antropocene

Il Giro del Mondo nell’Antropocene

Una mappa dell’umanità del futuro.
Carte di Francesco Ferrarese. 


Gli autori scelgono un contesto sostenuto da proiezioni e dati scientifici, nutrito da viaggi e sorvoli del pianeta tra geografia e fantasia come il famoso Giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne pubblicato esattamente mille anni fa. Già questo elemento mette il lettore in condizione di riflettere sulla relatività del tempo e dello spazio geografico, quest’ultimo mutevole da sempre ma con ordine temporale decisamente accelerato negli ultimi decenni. La struttura del testo permette di orientarsi e comprendere i cambiamenti prevedibili in ciascuno degli otto continenti dall’Africa all’Antartide che cambierà completamente e viene ribattezzata “Iperaustralia”. Importanti sono le finestre sull’Antropocene attuale con capitoli dedicati agli sconvolgimenti geografici e climatici presenti già in alcune aree del nostro pianeta.
Il campo profughi di Bidi Bidi nel nord dell’Uganda costituisce una vera e propria metropoli di baracche che ospitano centinaia di migliaia di sfollati. In Kenya e Somalia il campo Dadaab è nella stessa situazione. Ma perché migrano queste persone? Nella maggior parte a causa della siccità che provoca carenza alimentare di base, ma anche a causa di guerre religiose e scontri tra diverse etnie. Migrare diventa l’unica soluzione possibile anche se spesso è senza futuro. Nelle prime migrazioni i Sapiens, da poco comparsi sul pianeta andavano davvero incontro a luoghi più ospitali e con maggiori risorse: ciascuna migrazione ha dato origine allo sviluppo di nuovi rami di Sapiens e condivisione di tecnologie. Cicerone affermava Patria est ubicumque est bene, la patria è dovunque si sta bene. Purtroppo le migrazioni attualiinnescano altri conflitti e opposizioni politiche e ideologiche.
Nel capitolo titolato “deserti umani” vengono descritte le condizioni attuali di alcune aree medio orientali a partire dal lago di Aral oggi ridotto al 25% dei suoi 68.000 kmq e che ha perso il 60% della sua risorsa idrica. Lo stravolgimento ambientale era legato alla necessità di utilizzare le terre per la produzione del cotone promossa dall’URSS dopo la metà del XX secolo. Lo snaturamento del suolo per farlo diventare una monocoltura ha compromesso l’esistenza stessa del lago che rappresentava un bacino idrico fondamentale per le popolazioni kazache e Uzbeke. Ma oltre alla perdita della risorsa acqua, ciò che rimane è un’area fortemente inquinata da diserbanti e pesticidi. La popolazione rimasta fa i conti con malattie polmonari e varie altre patologie legate all’ambiente. Ancora una volta i Sapiens odierni dimostrano di vivere nel presente “qui e ora” senza pensare al futuro. E così è ben difficile distinguere un deserto naturale da uno umano.
L’elemento temporale si incontra nel capitolo ambientato nel futuro dedicato al continente Iperaustralia. La calotta polare antartica, nella ricostruzione del viaggio, si era definitivamente fusa nel 2570. I trecento anni precedenti avevano assistito a scontri continui per accaparrarsi le risorse da parte di tutti i paesi confinanti e non, in primis Cina e Stati Uniti ma anche l’Europa allargata che aveva in Antartide le basi scientifiche di monitoraggio ambientale. Proprio lì 800 anni prima le carote di ghiaccio antico avevano palesemente evidenziato i danni che l’umanità stava provocando all’equilibrio climatico.
La dimensione narrativa del viaggio immaginario, la dimensione scientifica della geografia fisica, le diverse realtà sociopolitiche, il linguaggio cartografico con tutta la sua capacità di visualizzazione intuitiva accompagnano il lettore a scoprire gli elementi fondamentali che stanno caratterizzando la nuova epoca geologica dove i Sapiens la fanno da padroni. Per questo l’opera si può definire un testo di denuncia: miopia, scarsa fiducia nella scienza, interesse economico e inettitudine, contraddistinguono e causano verosimilmente cambiamenti irreversibili.
Al lettore curioso possono interessare gli strumenti e le tecnologie utilizzati per la realizzazione delle cartografie che, ribadiamo, sono il risultato di elaborazione di dati reali e non sono frutto di fantasia. Le tavole che illustrano questo libro sono state realizzate con un software di disegno utilizzando i dati del Geographic Information System GIS. I modelli ottenuti permettono di visualizzare gli effetti di “allagamento” di territori tra zero e sessantacinque metri s.l.m.m attuali. Attraverso i Modelli di Elevazione Digitale DEM e alla loro manipolazione è stato possibile ottenere cartografie molto precise. È stato utilizzato il modello elaborato dai dati radar interferometrici raccolti dallo shuttle nel febbraio 2000 che copre tutta la superficie terrestre tranne i poli per le cui superfici è stato utilizzato Arctic DEM. Particolare interesse suscita la toponomastica, scelta per evidenziare i luoghi che avranno una connotazione fisiografica diversa a causa dell’innalzamento del livello marino.

Alberta Vittadello

 

Il campo rosso Zangrandi

Il campo rosso. Cronaca di un’estate-1946

A cura di Giuseppe Mendicino
Collana "personaggi"


La costruzione del Rifugio Antelao nel Cadore, sulla sella Pradonego a circa 1800 metri di quota con un’ampia vista verso le Marmarole, il lontano Comelico e i bastioni argentati dell’Antelao: “Il campo rosso” è il racconto di questa strenua avventura intrapresa nell’estate del 1946 da Giovanna Zangrandi, pseudonimo di Alma Bevilacqua, per realizzare il sogno che nel corso della Resistenza aveva condiviso con l’uomo amato, il comandante partigiano Severino Rizzardi. Sogno spezzato dalla morte di lui in una imboscata dei tedeschi il 26 aprile del 1945. Nell’estate del 1946, innamoratissima delle montagne e in particolare di quelle della Resistenza a cui aveva partecipato come staffetta dal 1943, Giovanna decide di procedere ugualmente alla costruzione del rifugio per gestirlo personalmente. Con coraggio e determinazione porterà a termine l’impresa. Dirigendo una squadra di pochi operai e manovali, affronta fatiche immani economiche e soprattutto fisiche per le difficoltà di reperire i materiali e traportarli sul luogo della costruzione, a dorso di mulo o su qualche jeep militare, oppure a piedi con gerla in spalla. Giovanna è coinvolta psicologicamente nelle vite degli operai e di chi le sta intorno, rischia lei stessa la perdita di un occhio, vive e combatte il risveglio di pulsioni sopite. Il titolo “Il campo rosso” richiama un campo di grano infiammato dai papaveri, caro ricordo dell’infanzia in pianura, ma anche dei rododendri dell’altopiano in cui sta per essere costruito il rifugio. Il racconto non è mera cronaca, stupisce per la qualità della scrittura. Fatti, episodi, avvenimenti di quell’estate, sono filtrati in metafore linguistiche di colori, suoni, dolcezze e asprezze della natura, respiri dell’animo. La durezza del presente si intreccia con il dramma della guerra appena finita, che è presente nella memoria in sottofondo. Giovanna non vuole abbandonarsi alla disperazione, usa una lingua scattante ma poetica per un racconto duro ed estremamente reale.
La soddisfazione per una impresa riuscita si scontra con una dura realtà, come racconta Mendicino nella prefazione. Dopo qualche anno Giovanna, che nel libro è Anna, mentre Severino è Dario, capisce che l’impresa più ardua è gestire il rifugio. In bellissima posizione panoramica, è però lontano dalle vie alpinistiche dell’Antelao e non agevole da raggiungere per gli escursionisti. Le nuoce poi un certo pregiudizio maschilista diffuso tra alpinisti e montanari. Nel 1951 cede il Rifugio Antelao al CAI di Treviso che lo gestisce tuttora. Cessata la gestione del rifugio, Giovanna Zangrandi inizia a scrivere, parecchi libri parlano dei Partigiani e della Resistenza.
Il libro edito da Ceschina nel 1959, non era stato ristampato. È stato riscoperto e pubblicato dal Club alpino italiano per la collana “personaggi” nel dicembre 2022.
Bella e interessante la prefazione in cui Giuseppe Mendicino, curatore del libro, presenta la complessa e ricca figura umana e letteraria di Giovanna Zangrandi, dalla sua nascita nel 1910 a Galliera in provincia di Bologna, fino alla sua morte a Pieve di Cadore il 20 gennaio del 1988.

Etta Artale

 

 

il reich segreto

IL REICH SEGRETO

Le basi tedesche tra l’Antartide e il Sud America 


In questo saggio un'approfondita indagine su occulte presenze tedesche in Sud America sia durante il secondo conflitto mondiale, sia nel dopoguerra. Dodici rcchi capitoli di storia e analisi e a conclusione una ricca documentazione. 
Il Terzo Reich nasconde ancora molti segreti.  Marco Zagni svolge un’approfondita indagine su alcuni misteri relativi alla Germania nazista, anche con il contributo diretto di ricerche e spedizioni effettuate in Bolivia, Perù e Brasile.
La Germania di Hitler ha veramente avuto delle basi segrete in Sud America e in Antartide? Di che cosa si occuparono e quali furono i veri scopi di queste missioni tedesche? Quali furono i comportamenti e le reazioni militari degli Alleati? L’Autore risponde a queste domande studiando e analizzando diversi documenti poco conosciuti o inediti, e riportando resoconti personali di viaggi e di operazioni svolte sul campo….(continua a leggere su /www.mursia.com/products/marco-zagni-il-reich-segreto

La Redazione

monti arcani

ATLANTE DEI MONTI ARCANI – Storie e miti del mondo verticale

88 tavole e relativi approfondimenti con immagini ad acquarello 


Le montagne, solitarie o unite in catene, raccontano la storia della Terra dalla sua nascita, 4,5 miliardi di anni fa, fino al nostro tempo. Le trasformazioni geologiche e morfologiche hanno permesso l’evolversi delle diverse forme di vita fino alla comparsa dei Sapiens. Sono proprio i Sapiens che scelgono i rilievi per vivere utilizzando grotte e caverne ma anche per innalzarsi verso l’alto per “guardarsi” intorno. E ancora oggi, di fronte a una montagna viene naturale chiedersi: ma quanto è alta? Raramente ci si chiede quanto affonda le sue radici nella crosta. Se così fosse il Mauna Kea nelle Hawaii toglierebbe di gran lunga il primato all’Everest. L’autore nel suo Atlante disvela arcani legati alla mitologia, alle tradizioni, alle divinità, narrando per ciascun rilievo dalla Masada all’Everest storie e leggende.
Percorrendo il globo terrestre a tutte le latitudini e longitudini, Marcarini individua montagne appartenenti a catene montuose note ma anche cime isolate e sconosciute ai più come l’unica montagna della Lituania Aukštojas alta 294 m geomorfologicamente collina. Il piccolo rilievo non aveva nemmeno un nome fino al 2005, e non compariva nelle carte topografiche. L’idea del nome viene da un professore della facoltà di Storia di Vilnius e si riferisce alla divinità lituana considerata creatrice del mondo e amministratrice della morale e della giustizia.
Il Madagascar invece lo conosciamo tutti. Di questa grande isola sappiamo che è quanto rimane della Lemuria, leggendario continente che univa l’Africa all’India. L’autore nella breve scheda si concentra nella storia umana dei nativi delle diverse etnie. In particolare dei Betsileo che vivono sugli altopiani a sud est dell’isola ai piedi della montagna sacra Pic Ambondrombe alta 1936 m. Al termine del viaggio terreno i Betsileo liberano due anime: una che sale al cielo verso la vetta del Pic e una che continua a vagare nel villaggio. A conferma che l’altezza individua la sede del divino.
Più vicino a noi nelle dolomiti bellunesi si innalza il Monte Pore 2405 m. Conosciuto fin dal medioevo perché si coltivavano le miniere di siderite manganesifera, contese tra i tirolesi e i cadorini per la preziosità del materiale usato per forgiare armi e gioielli. Questa è storia scritta. Ma il monte Pore nasconde un arcano che ricorda la fiaba di Biancaneve e i sette nani. Si racconta che quando una vena si esauriva una fanciulla vergine e bella veniva isolata all’interno della miniera per sette anni. Aveva il compito di trasferire alla roccia la sua vitalità ed energia per rinvigorire la vena metallifera. Questa leggenda ha un fondamento di verità e possiamo immaginare che il minerale esaurito rimanesse tale e che nelle vene della fanciulla il sangue non scorresse più, non si racconta infatti di un principe salvifico. La struttura del volume, costituito da 88 tavole che forniscono un quadro geografico preciso e puntuale, permette una lettura passo, passo, meta dopo meta. Ogni tavola, infatti, è completata nella sezione approfondimenti e figure ad acquerello da una guida con opportune indicazioni per raggiungere ciascun sito.
Leggende, storie, miti, arcani trasferiscono alla conoscenza storica e geografica sempre presente, una dimensione che merita di essere disvelata.

Alberta Vittadello

Lucy Kalika - memorie

MEMORIE DI LUCY KALIKA. ODESSA VICOLO AVCHINNIKOVSKY 7

A cura di Edda Fogarollo. Prefazione di Francesco Berti 


Grazie al prezioso lavoro di Edda Fogarollo, appassionata storica dell’ebraismo e della Shoah, sono state pubblicate in Italiano “Le memorie di Lucy Kalika”, la testimonianza drammatica di una giovane ebrea ucraina sfuggita allo sterminio nazista rimanendo nascosta per 820 giorni – dal 24 ottobre del 1941 fino alla liberazione di Odessa il 10 aprile del ’44 – in una angusta cantina segreta sotto la cucina del suo appartamento nel vicolo Avchinnikovski 7 di Odessa. Con lei la sorella, la madre e poche altre persone. Ci chiediamo come la sopravvivenza all'Olocausto sia stata possibile, ma la prima a chiederselo è proprio lei, Lucy Kalika: “Come siamo sopravvissute? Perché non siamo state sterminate insieme a centinaia di migliaia di ebrei?”. La risposta si può forse trovare nelle brevi emozionanti pagine che si leggono tutto d’un fiato e lasciano il sapore amaro della criminalità nazista e insieme la gioia per un esito felice reso possibile dall’aiuto di persone che con la loro complicità per più di due anni hanno rischiato la vita senza cedere alla paura. Sono le vicine di casa Olga ed Elena Kantorovich. Il loro coraggioso aiuto quotidiano ha alimentato la speranza della liberazione in chi sottoterra viveva in condizioni disumane. Kalika scrive il libro a 84 anni, considerando sua missione far conoscere la verità. Le figlie hanno trovato tra i suoi documenti questo appello ai lettori da lei firmato nel 2013, anno in cui è uscito il libro in versione inglese: “Caro lettore, il mio libro è la mia testimonianza: un altro documento accusatorio della tragica storia dell’Olocausto”. Quanto mai attuale oggi che Liliana Segre teme con amarezza la dimenticanza del genocidio: «Una come me ritiene che tra qualche anno ci sarà una riga tra i libri di storia e poi più neanche quella».
Il libro non è solo importante per le pagine autografe di Kalika, ma anche per gli altri approfondimenti di cronaca e storia, dalla prefazione di Francesco Berti, docente dell’Università di Padova, all’Introduzione di Edda Fogarollo, alle pagine delle figlie che ci informano sulla vita, il carattere e la professione di medico della madre morta a 91 anni, alla testimonianza di Ariel Viterbo, che racconta di una simile esperienza di sopravvivenza vissuta e testimoniata per iscritto da sua madre. In conclusione l’interessante appendice su Odessa, sempre di Edda Fogarollo: “La Perla del Mar Nero e il suo DNA italiano”. Un valore aggiunto al libro sono poi alcune fotografie della protagonista in anni diversi della sua vita, le foto dei luoghi e degli ambienti in cui avvennero i fatti e quelle di alcuni documenti scritti di proprio pugno da Lucy Kalinka a sostegno della sua storia.

Etta Artale