La biodiversità per l’innovazione e la resilienza nei sistemi agroalimentari

di Stefania De Pascale

Un articolo di Stefania De Pascale pubblicato il 10 aprile 2024 su GeorgofiliINFO

l termine biodiversità, usato in molteplici circostanze e talvolta abusato, è molto più di una semplice parola alla moda. Questo concetto, cruciale in ecologia, si riferisce alla vasta varietà delle forme di vita ed è stato introdotto dall’entomologo Edward O. Wilson nel 1986. La biodiversità abbraccia la variabilità genetica entro le specie, la diversità tra specie diverse e la varietà degli ecosistemi. Questa diversità biologica è vitale per la resilienza e la sopravvivenza delle specie e degli ecosistemi, permettendo loro di adattarsi ai cambiamenti e alle perturbazioni ambientali. Tuttavia, l’interpretazione comune di biodiversità spesso ignora la sua estensione, limitandosi all’agrobiodiversità, ovvero alla varietà di piante coltivate e animali domestici, che rappresenta solo una piccola frazione della biodiversità complessiva seppure di vitale importanza. L’agrobiodiversità si riferisce al patrimonio di risorse genetiche vegetali, animali e microbiche, prodotto dal lavoro di generazioni di agricoltori e allevatori che, dall’alba dell’agricoltura, hanno selezionato, domesticato e trasferito specie da diverse zone geografiche per ottenere prodotti utili all’uomo.
La cosiddetta Rivoluzione Verde (1940-1970) ha segnato un’epoca di industrializzazione agricola con incrementi produttivi notevoli, ma a spese di un elevato consumo energetico e di una riduzione della diversità agroalimentare. La biodiversità delle colture è stata particolarmente compromessa: secondo la FAO nel corso del XX secolo abbiamo perso il 75% delle varietà di colture disponibili. Oggi, il sistema agroalimentare mondiale si affida a un numero molto limitato di specie: meno di 200 delle 6000 coltivate per la produzione di cibo contribuiscono significativamente all’approvvigionamento alimentare globale, con solo 9 specie che dominano la produzione (rappresentando il 66% della produzione totale).
La storia ha mostrato gli effetti catastrofici di epidemie su colture geneticamente uniformi, come la carestia della patata in Irlanda nel 1845 o l’epidemia di Bipolaris maydis negli Stati Uniti nel 1970. Esempi recenti in Italia includono il punteruolo rosso della palma (Rhynchophorus ferrugineus), che dal 2005 si è diffuso in Italia soprattutto lungo la linea costiera trovando la sua via tra i filari di palme, o la Xylella fastidiosa che ha infettato ventuno milioni di ulivi pugliesi, coprendo ottomila chilometri quadrati, circa il 40% del territorio regionale. Secondo la FAO, inoltre, molti effetti negativi del cambiamento climatico sulle piante hanno parassiti come intermediari; la presenta di insetti benefici, diminuita dell’80% negli ultimi tre decenni, sta aumentando il rischio di invasioni di insetti dannosi. Un esempio chiaro di quest’ultimo fenomeno sta avvenendo in modo drammatico nell’Africa orientale dove negli ultimi decenni avvengono infestazioni di locuste senza precedenti.
Su scala globale nel breve e lungo periodo, l’agricoltura dovrà aumentare del 60-70% la produzione alimentare per sfamare una popolazione in crescita, prevista a 9,7 miliardi entro il 2050; dovrà farlo nel rispetto delle risorse naturali e della salute dei consumatori, in un contesto in cui la gran parte dei terreni utilizzabili è già coltivato e affrontando i sempre più pressanti temi del degrado ambientale e del cambiamento climatico. In estrema sintesi, l’agricoltura deve aumentare la produzione in modo sostenibile, evitando l’ulteriore conversione di foreste e boschi in terreni coltivati ma concentrandosi sui terreni coltivati attraverso l’intensificazione moderata, l’adattamento e il trasferimento di tecnologie, nei paesi a bassa resa e il miglioramento tecnologico globale nei paesi ad agricoltura avanzata inserendo «più conoscenza per ettaro», traendo vantaggio dai progressi della ricerca.
In questo scenario, l’agrobiodiversità rappresenta un fattore chiave per la sostenibilità e la resilienza dei sistemi agricoli, con contributi quali la diversità genetica per l’adattamento delle colture ai cambiamenti climatici e la resistenza a malattie e parassiti, la diversità delle colture (specie e varietà) per la stabilità delle produzioni e il mantenimento della fertilità dei suoli e la diversità degli agroecosistemi per garantire i servizi ecosistemici e la sicurezza alimentare.
L’agrobiodiversità, infatti, rappresenta una riserva genetica per lo sviluppo di varietà adattate alle sfide future. Le biotecnologie avanzate, note come Tecniche di Evoluzione Assistita (TEA) quali la cisgenesi e il genome editing, offrono metodi per migliorare geneticamente le colture in modo mirato e rapido. Diete variegate, basate su diverse colture, non solo sono più nutrienti, ma sostengono anche la sicurezza alimentare delle comunità locali e la conservazione di sapori e saperi tipici e tradizionali. Le comunità rurali hanno spesso una profonda conoscenza della gestione di razze e varietà locali che è legata allo sviluppo sostenibile dei territori. L’agricoltura sostenibile e biodiversa non solo è vantaggiosa per l’ambiente, ma anche dal punto di vista economico, offrendo opportunità di differenziare il prodotto e di mitigare il rischio associato al mercato dei prodotti di massa.
In definitiva, la sfida è di intensificare l’agricoltura concentrandosi sulla sostenibilità ambientale ed economica, incorporando più conoscenza e tecnologia per ettaro, secondo le indicazioni dell’Unione Europea. La formazione, la didattica, la ricerca e il trasferimento tecnologico giocano un ruolo fondamentale nel realizzare questa forma di intensificazione, puntando a un’avanzata comprensione e applicazione di scienza e tecnologia. Proteggere e valorizzare l’agrobiodiversità è un elemento strategico. Essa consente agli agricoltori di adattarsi ai cambiamenti climatici e di modellare i loro sistemi agricoli in modi sostenibili e resilienti. Il ruolo della politica è determinante nel promuovere pratiche che preservino la biodiversità, attraverso incentivi e interventi strategici. L’adozione di approcci partecipativi può sfruttare la diversità locale per sviluppare sistemi agricoli più robusti. Le accademie, infine, hanno il compito di creare sinergie tra istituzioni, imprese, tecnici e consumatori, nonché di comunicare efficacemente la scienza, ricordando che l’innovazione spesso affonda le radici nella tradizione.

L’articolo su GeorgofiliINFO

Nei premi di matematica il divario di genere è ancora un problema da risolvere

Un articolo di Barbara Paknazar pubblicato lo scorso 4 marzo su “Il Bo Live” dell’Università di Padova

Negli ultimi 90 anni i principali riconoscimenti mondiali in matematica sono stati assegnati in totale 217 volte, ma solo in sette occasioni a riceverli sono state scienziate donne.

Numeri di questo tipo ci dicono che, sebbene nell’ultimo decennio si siano iniziati a vedere importanti segnali di cambiamento su cui ci soffermeremo tra poco, il problema della sottorappresentazione femminile tra i candidati ai premi più prestigiosi di matematica rimane evidente. E lo stesso fenomeno emerge con chiarezza anche analizzando i dati della progressione delle carriere, dove la forbice tra uomini e donne si allarga sempre di più man mano che si sale verso le posizioni accademiche apicali.

A tornare sull’argomento è stata di recente la rivista Nature in un articolo che ha analizzato come il divario di genere nell’assegnazione dei sei più importanti premi internazionali di matematica non sia ancora stato risolto e come questo abbia un impatto rilevante sulla valorizzazione del lavoro di una parte rilevante della comunità scientifica attiva nelle scienze matematiche. 

Uno dei più alti riconoscimenti della disciplina è la medaglia Fields, premio istituito nel 1936 e che viene assegnato ogni quattro anni a matematici di età inferiore a 40 anni in occasione del congresso della International Mathematical Union. La prima donna ad ottenerlo è stata, nel 2014, la matematica iraniana Maryam Mirzakhani che nel 2020 ha ricevuto anche il riconoscimento postumo del Breakthrough Prize, principalmente per il suo lavoro teorico sulla comprensione della simmetria delle superfici curve.

Mirzakhani, prematuramente scomparsa nel 2017 a causa di un tumore al seno e prima persona di nazionalità iraniana ad aver ottenuto la Medaglia Fields, è diventata un simbolo. In suo ricordo il 12 maggio di ogni anno, data di nascita della scienziata, si celebra la Giornata internazionale delle donne nella matematica con eventi e iniziative in tutto il mondo.

Oltre a lei, soltanto altre quattro scienziate donne hanno ricevuto le maggiori onorificienze della disciplina. Il 30 gennaio del 2024 Claire Voisin è diventata la prima donna a vincere il premio Crafoord, dopo che nel 2017 le era stato assegnato il premio Shaw. Nel 2023, la fisica e matematica Ingrid Daubechies ha ricevuto il Premio Wolf; Maryna Viazovska ha vinto la Medaglia Fields nel 2022 (diventando così la seconda donna, dopo Mirzakhani ad aver ottenuto il riconoscimento che in molti definiscono Nobel della Matematica) e Karen Keskulla Uhlenbeck ha ottenuto nel 2019 il premio Abel. 

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https://ilbolive.unipd.it/it/news/nei-premi-matematica-divario-genere-ancora

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Nomadi e stanziali sono stati per millenni due facce della stessa medaglia

di Valerio Calzolaio

Un articolo di Valerio Calzolaio pubblicato il 20 gennaio 2024 su “Il Bo Live” dell’Università di Padova

Il termine italiano “nomadismo” deriva etimologicamente da varie ascendenze in lingue indoeuropee. In greco si riferiva precisamente alla pastorizia, ai pastori e al pascolo. In arabo “bedu” è beduino, nomade, pastore. Il termine italiano “migrazione” ha altre ascendenze. La radice del migrare affonda nell’andare oltre. Donne e uomini sulla Terra stanno in luoghi diversi, cercano apporto alimentare, talora imparano a trovarlo seguendo gli animali o errando, errano per sopravvivere e riprodursi, talora migrano. Il nomadismo dei raccoglitori cacciatori fa riferimento alla ricerca di alimenti di piccoli gruppi o bande in spazi limitati, più che al cambio di biodiversità (e clima). Gruppi della specie talora migrano di conseguenza, si orientano al nomadismo prima per raccogliere vegetali (e acqua), poi per seguire e cacciare erbivori migratori, via via più consapevoli e orgogliosi di essere liberi di muoversi e di cacciare. Il cacciatore del Paleolitico è più errante che nomade. E il nomadismo è una dinamica evolutiva delle specie umane, soprattutto dei sapiens, identitaria con il Neolitico.

Si tratta di vero e proprio nomadismo pastorale quando è organizzato in funzione del capitale animale, prima prevalentemente sulla base delle attività e dei comportamenti degli animali, poi orientato dagli umani. Il nomadismo dei raccoglitori cacciatori prepara, sperimenta, articola, diversifica l’agricoltura e l’allevamento. I nomadi sono costretti ad adattarsi a maggiori variazioni del clima, dei biomi, della biodiversità. Non tutta la specie umana era nomade prima del Neolitico, cioè consapevolmente coerentemente efficacemente dotata di una tecnica relazionale con luoghi più o meno ampi, con l’ambiente, con il clima, con l’acqua, con la terra. Il nomadismo poteva essere una tecnica di sopravvivenza, talora forzato, occasionale, regressivo. Riguardava alcuni gruppi, in alcuni continenti, in alcuni periodi. Risulta diventare un’identità sociale riconoscibile e consapevole solo lentamente. Migrare era una sequenza progressiva di risposte adattative, una strategia evolutiva di sopravvivenza ed adattamento, all’interno della quale vi poteva anche essere, da un certo momento in poi, l’attività pastorale nomade.

Fra i suggerimenti di lettura della nostra redazione per le recenti festività a cavallo fra il 2023 e il 2024, è stato autorevolmente indicato anche un bellissimo interessante saggio di Anthony SattinNomadi. I popoli in cammino che hanno plasmato le nostre civiltàNeri Pozza Vicenza 2023 (orig. 2022), pag. 425. Opportunamente, l’autore concentra l’attenzione sui millenni del Neolitico, pur non approfondendo la discussione sull’utilizzo del termine e l’esistenza del fenomeno durante i precedenti lunghissimi articolati milioni di anni del Paleolitico.  L’ipotesi è chiara e convincente: per la maggior parte degli ultimi dieci mila anni il rapporto tra popolazioni nomadi e popolazioni sedentarie è stato complementare e interdipendente, fortune e crisi intrecciate. Tuttavia noi sedentari ricostruiamo storie e geografie a nostra immagine e somiglianza, meglio esserne consapevoli; ancor meglio risulta studiare e cercare di comprendere come e perché tanti gruppi di sapiens siano sempre restati in movimento anche alla fine dell’ultimo periodo glaciale, preferendo leggerezza di strutture e continui equilibrati adattamenti con gli ecosistemi circostanti.

Una volta eravamo tutti cacciatori e tutti raccoglitori: i primi a smettere di fare l’una e l’altra cosa risalgono a non più di dodicimila anni fa. Il che non significa che prima eravamo tutti nomadi, piuttosto erranti. Sattin ritorna utilmente sull’etimologia: alle radici del termine indoeuropeo nomos vi è il “pascolo”, uno specifico modo di “cacciare”. Poi il termine nomas indicò qualcuno errante in cerca di pascoli. Le tribù pastorali erranti erano sia nomadi che stanziali, una parallela evoluzione si collegò ai cambiamenti climatici strutturali (che resero possibili allevamento e agricoltura) o frequenti (più o meno ciclici o stagionali). Dopo la costruzione dei primi agglomerati urbani e l’insediamento “residenziale” di un gran numero di persone, il termine “nomade” prese a essere utilizzato per indicare genti che vivono senza mura, ossia ai margini dei centri abitati. Oggi noi sedentari lo usiamo in due modi molto diversi, spiega l’autore: con un senso di nostalgia romantica e vagabonda, da una parte; come un carattere di sbandati senza fissa dimora, “sconosciuti” dall’altra parte.

Dodicimila anni fa la maggior parte dei (forse) cinque milioni di sapiens viventi erano nomadi, per millenni comunità, popoli e imperi di nomadi sono restati ampi e potenti, ma hanno lasciato meno testimonianze scritte o “fisse”, poco leggibili con le lenti dei sedentari. Eppure… Il giornalista, storico, conduttore televisivo e scrittore di viaggi Anthony Sattin (1956) rilegge in modo appassionante la preistoria e la storia dal punto di vista dei gruppi umani in movimento, dai trionfi passati che hanno sempre e comunque plasmato le nostre civiltà, alla riduzione progressiva di numero e a una sorta di demonizzazione attuale dei “nomadi”. La prima parte del volume riguarda i tanti primi millenni del Neolitico in cui le popolazioni stanziali e quelle nomadi (che comunque entrambe scolpivano ed erigevano monumenti, avevano culti e celebravano i luoghi dei morti, tramandavano storie) per lo più convivevano e collaboravano, poiché l’umanità passò certo per gradi dalla caccia e dalla raccolta dei “frutti” della terra (talora poi da far fermentare con un secondo lavoro, l’autore accenna frequentemente a farina, birra e vino) all’agricoltura e alla pastorizia….

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