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“Il Bo live”. Litio, terre rare e cobalto: tre minerali critici

Un articolo di di Francesco Suman pubblicato su "Il Bo Live" dell'Università di Padova 


La lista dei minerali considerati critici dall’Europa viene aggiornata ogni tre anni. In quella del 2023 se ne contano 34, anche se alcuni come le terre rare o i metalli del gruppo del platino sono, per l’appunto, raggruppamenti di più materiali.
La lista non è una mappatura scientifica dell’abbondanza di alcuni elementi della tavola periodica nella crosta terrestre, ma piuttosto una valutazione geopolitica della loro reperibilità sul mercato, presente e futura. I criteri con cui viene stabilito se un materiale è critico si possono trovare in uno studio approfondito allegato alla proposta della Commissione, il Critical Raw Materials Act, ma sono sostanzialmente tre: il rischio di interruzione dell’approvvigionamento, la rilevanza per l’industria europea, la scarsa sostituibilità.

Rispetto a quella precedente del 2020, la nuova lista presenta delle new entries, come l’arsenico, usato in metallurgia e nei semi-conduttori, il feldspato, impiegato per produrre vetro e ceramica, e il manganese, cruciale componente delle batterie. Altri sono dei ritorni, come quello dell’elio, che serve alla criogenia, oltre che ai semi-conduttori, e che era stato incluso nella lista del 2017 ma non in quella del 2020.
Alcuni minerali sono stati inseriti nella lista nonostante non incontrino tutti i criteri di criticità, ma perché ugualmente considerati strategici. È il caso del rame, alla base di ogni rete elettrica, e del nickel, presente ad esempio nei poli delle batterie al litio.
Altre ancora invece sono delle conferme, come quelle di litio, terre rare e cobalto, ingredienti protagonisti, per diverse ragioni, delle tecnologie essenziali sia alla transizione energetica sia a quella digitale.

Eccoli in dettaglio:

Litio

Il litio è alla base di tutte le batterie ricaricabili più diffuse, dagli smartphone ai veicoli elettrici, ed è stato aggiunto alla lista dei minerali critici per la prima volta nel 2020.

Secondo la BP Statistical Review of World Energy (che unisce dati dello US e dello UK Geological Survey e del World Mining Data), nel 2021 sono state prodotte nel mondo circa 106.000 tonnellate di litio. Il Cile ne detiene le maggiori riserve (9,2 milioni di tonnellate) ed è il secondo produttore al mondo con 26.000 tonnellate, circa un quarto del totale.
L’Australia invece, seconda per riserve (5,7 Mt), è il primo produttore con 55.000 tonnellate, più della metà del totale globale. La Cina, con 14.000 tonnellate, è la terza produttrice, mentre è quarta per riserve, con 1,5 Mt, dietro all’Argentina che ha 2,2 Mt ma ne produce solo 6.000 l’anno.
Altri giacimenti, stimati sotto il milione di tonnellate, si trovano negli Stati Uniti (0,75 Mt), in Zimbabwe (0,2 Mt), in Brasile (0,1 Mt) e in Portogallo (0,06 Mt). Altri depositi di litio, per un totale di mezzo milione di tonnellate, sono distribuiti nel resto del mondo.
Recentemente anche l’Iran e l’India hanno annunciato la scoperta di grandi giacimenti di litio, rispettivamente di 8,5 Mt e quasi 6 Mt. Tuttavia non sarà semplice sfruttarli nel breve termine, poiché l’estrazione richiede tempo.

Esistono diversi metodi per estrarre il litio, poiché può essere contenuto o in rocce, come in Australia, o in laghi salmastri sotterranei detti salar, spagnolo per salina. L’estrazione dalle saline richiede un elevato consumo di acqua (si stima 500.000 galloni per tonnellata di litio), che spesso entra in conflitto con la domanda idrica degli agricoltori, come accade ad esempio nel Salar de Atacama, in Cile. Inoltre, il processo di filtraggio produce diverse sostanze tossiche e inquinanti.
Oggi l’Europa importa proprio dal Cile più dei tre quarti del litio che consuma (79%). Oltre al Portogallo, avrebbe giacimenti in Spagna e Repubblica Ceca, ma spesso i progetti di estrazione incontrano le resistenze delle comunità locali.
La disponibilità di questo minerale al momento non è limitata e nuovi giacimenti stanno venendo individuati, tuttavia secondo un rapporto della Agenzia Internazionale dell’Energia la sua domanda, guidata soprattutto dall’espansione del mercato dei veicoli elettrici, entro il 2040 potrebbe crescere di oltre 40 volte rispetto ai livelli attuali. Secondo quanto riporta uno studio della Commissione Europea entro il 2050 lieviterebbe fino a 57 volte. Anche per questo il mondo della ricerca sta lavorando allo sviluppo di sistemi di accumulo alternativi al litio, come le batterie al sodio, considerate tra le più promettenti.

Terre rare

Le cosiddette terre rare sono un insieme di 17 elementi della tavola periodica: 15 hanno numero atomico compreso tra 57 e 71 e sono chiamati lantanoidi, mentre altri due, scandio e ittrio, hanno numero atomico 21 e 39, rispettivamente. Sono tutti accomunati da alcune caratteristiche, quali un magnetismo stabile e una notevole duttilità, che li rende particolarmente adatti la produzione di magneti, con largo impiego nell’industria informatica, energetica e meccanica. Servono ad esempio per le turbine eoliche offshore e per i veicoli elettrici, ma non per la costruzione delle batterie al litio.
A dispetto del nome, non sono elementi così rari sulla crosta terrestre. Tuttavia, la loro lavorazione è concentrata in un solo Paese, la Cina, da cui l’Europa importa la totalità delle terre rare pesanti (una decina di elementi) e l’85% di quelle leggere.
Solo poco più di un terzo (il 35%) delle riserve mondiali ad oggi note si trovano in Cina (si stimano 44 Mt), Paese che però è di gran lunga il dominatore del mercato, con più di due terzi della produzione globale (168.000 tonnellate all’anno). Questo perché è in grado di estrarle e lavorarle a basso costo, senza dare troppo peso all’impatto ambientale, che non è trascurabile.
Recentemente in Svezia è stato scoperto un deposito di terre rare, ma serviranno dai 10 ai 15 anni prima di poterlo sfruttare. Altri depositi si trovano in Brasile (21 Mt), Russia (19 Mt), India (6,9 Mt), Australia (4,4 Mt) e in altri Paesi (per un totale di altri 26 Mt). Il secondo produttore dopo la Cina sono gli Stati Uniti con il 15% della quota globale (43.000 tonnellate l’anno). Sul gradino più basso del podio c’è l’Australia con quasi l’8% della produzione globale (22.000 t).
La IEA stima che la domanda di terre rare crescerà di circa 7 volte per soddisfare la domanda nel 2040. È un aumento notevole, ma non tanto quanto quello atteso per altri minerali come il cobalto, la grafite o il nickel, la cui domanda si stima verrà moltiplicata di circa 20 volte, se la transizione ecologica verrà realizzata in linea con gli impegni che limitino il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C. Eventuali interruzioni di forniture delle materie prime comporterebbero un rallentamento della transizione stessa e un aumento dei suoi costi complessivi.

Cobalto

Esistono diversi tipi di batterie al litio. Molte di quelle costruite fino ad oggi impiegano cobalto nel catodo, il polo negativo. Ci sono però anche tecnologie alternative che possono farne a meno, come le batterie al litio-ferro-fosfato, già montate su alcuni veicoli elettrici, o quelle al sodio, che si spera presto saranno disponibili, anche per i sistemi di accumulo delle rinnovabili. Sebbene quindi in alcuni tipi di batterie il cobalto possa venire eliminato, o sostituito dal nickel, con ogni probabilità continuerà a essere presente nelle batterie dei dispositivi più piccoli come smartphone, computer portatili e fotocamere.
Circa 3,5 milioni di tonnellate, la metà delle riserve globali note, si trovano nella Repubblica Democratica del Congo, Paese che domina la produzione mondiale (con 93.000 tonnellate annue, il 70% del totale) e da cui l’Europa importa i due terzi del proprio fabbisogno. Altre 1,4 Mt (circa il 20% delle riserve globali) si trovano in Australia, che però si ferma a poco più del 4% della produzione globale (5.600 t), poco meno di quanto fa la Russia (con 6.500 t).
Nonostante le immense riserve di un minerale che garantisce lo sfruttamento dell’energia elettrica al resto del mondo, solo un cittadino congolese su 10 ha accesso all’energia elettrica e nel 2030 le cose potrebbero non andare diversamente: 6 dei 7 Paesi in cui sarà concentrata la povertà energetica saranno africani e uno di questi sarà proprio il Congo.
Nel 2021, la Cina è arrivata a controllare 15 delle 19 principali miniere congolesi da cui si estrae il cobalto, come prodotto secondario delle miniere di rame. La miniera di Kinsafu ad esempio è recentemente passata dal controllo del colosso minerario statunitense Freeport McMoRan a quello di China Molybdenum. Quella di Tenke Fungurume da sola produce il doppio del cobalto di qualsiasi altro Paese nel mondo e da quando è passata in mani cinesi le incursioni di chi vuole impossessarsi illegalmente del cobalto sono aumentate.
Lo ha rivelato una recente inchiesta del New York Times che denuncia quanto le estrazioni di questo minerale, oltre ad aver storicamente sfruttato il lavoro minorile, abbiano finanziato guerre e conflitti, contribuendo all’instabilità di diversi governi africani. Il cobalto va considerato pertanto non solo un minerale critico, ma un vero e proprio minerale di conflitto.

L’approccio predatorio e colonialista che per tutto il XX secolo, e spesso ancora oggi, ha accompagnato le estrazioni di petrolio (il Congo è anche uno dei 10 maggiori produttori di oro nero dell’Africa) e altre risorse naturali dai Paesi in via di sviluppo non può e non deve venire riprodotto in un mondo, quello della transizione ecologica, che voglia dirsi sostenibile.
È pertanto essenziale costruire una filiera del riciclo che sia in grado di recuperare le materie prime già presenti nei dispositivi e riutilizzarle senza dover dipendere da estrazioni e importazioni da Paesi che la stessa domanda di mercato contribuisce a rendere instabili.
Per realizzare tutto questo occorrono norme, come quella della responsabilità estesa dei produttori, che devono rendere conto di tutto il ciclo di vita di un prodotto che immettono sul mercato. Le regole del gioco devono rendere conveniente al produttore l’approvvigionamento di materie prime dalla filiera del riciclo piuttosto che da un sottosuolo che altrimenti continuerebbe a venire depredato di risorse.

Il petrolio, così come il gas o il carbone, una volta estratti vengono bruciati e non possono venire recuperati. Il litio, il cobalto, la grafite, il nichel, le terre rare, così come il manganese e altri minerali critici invece sì, a patto che la batteria, il dispositivo o la tecnologia in cui sono impiegati siano progettati per rendere possibile il loro recupero. Occorrerà ad esempio impiegare colle che non abbiano come unico obiettivo l’ottimizzazione degli spazi e l’ergonomia del dispositivo, rendendo difficile la separazione dei materiali in fase di riciclo. Magari ne perderà l’estetica dei nostri smartphone, ma questo sì è un costo che vale la pena pagare.

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Il Bo live. Ortoressia nervosa: quando il cibo sano diventa ossessione

Pubblichiamo un interessante articolo di Federica DʹAuria comparso lo scorso 10 marzo su "Il Bo Live" dell'Università di Padova 


Non è un mistero che una dieta bilanciata e ricca di cibi salutari sia funzionale al nostro benessere sia fisico che mentale. Eppure, quando l’alimentazione e il controllo dei pasti diventano un chiodo fisso e influenzano negativamente la salute, l’umore e le abitudini quotidiane di una persona, il rischio è quello di sviluppare un disturbo del comportamento alimentare chiamato ortoressia nervosa. Chi ne soffre, infatti, tende a controllare compulsivamente le dosi e le proprietà nutritive di tutto ciò che ingerisce, evitando ogni alimento che considera insano e preoccupandosi continuamente e in modo eccessivo della qualità del cibo. Purtroppo, trattandosi di un problema emergente e ancora non diagnosticabile secondo criteri univoci, il riconoscimento dell’ortoressia e la presa in carico del paziente che ne soffre non sono sempre semplici. Ne abbiamo parlato in questo episodio di "In Salute" con il professor Stefano Caracciolo, psichiatra, psicoterapeuta e ordinario di psicologia clinica all’università di Ferrara.

“L’ortoressia è un problema comunemente descritto come un disturbo alimentare ma che non trova attualmente una definizione nel DSM-5, il manuale diagnostico e statistico di tutti i disturbi mentali riconosciuto e adottato a livello internazionale”, chiarisce il professor Caracciolo. “Pur trattandosi di una condizione degna di attenzione dal punto di vista clinico che impatta negativamente sulla salute di chi ne soffre, per l’ortoressia – al contrario di altri disturbi alimentari, come ad esempio l’anoressia nervosa – non esistono dei criteri diagnostici precisi che permettano di identificarla con certezza. Inoltre, siccome le persone con ortoressia il più delle volte non si rivolgono ai servizi sanitari (poiché non ritengono di avere un problema di salute) è impossibile raccogliere dati epidemiologici precisi che consentano di valutarne l’incidenza”.

Guarda su You tube l’intervista al professor Stefano Caracciolo sull’ortoressia nervosa. (Montaggio di Barbara Paknazar)

Insomma, non è certamente facile stabilire un confine ben preciso tra uno stile alimentare sano e l’ortoressia nervosa. “Direi che il momento in cui un regime alimentare sano diventa esagerato ed esasperato è quello in cui la persona si ritrova a sperimentare una condizione di sofferenza”, afferma Caracciolo. “La sofferenza in questione deriva dall’impossibilità di alimentarsi al di fuori di una serie di rigidissime regole autoimposte che, come suggerisce la letteratura scientifica, si basano sul controllo ossessivo dei cibi e la ripetizione di certi rituali che accompagnano la preparazione e la consumazione degli alimenti. È chiaro che in situazioni del genere la condizione patologica non deriva più di tanto dagli effetti del cibo sul corpo, bensì dall’impossibilità di uscire da questi rigidi schemi comportamentali”.

Detto questo, come spiega il professor Caracciolo, è difficile stabilire una volta per tutte quali siano quei comportamenti osservabili che permettono di distinguere una persona con ortoressia nervosa da chi invece ha semplicemente a cuore la sua alimentazione perché l’attenzione per la dieta può assumere un significato diverso per ogni persona anche in base alle sue abitudini personali, sociali e religiose. “Sono molti i fattori che possono influire sul comportamento alimentare”, riflette il professore. “Per alcune patologie, come l’anoressia nervosa, esistono alcuni comportamenti precisi e ben chiari che permettono di accertare la presenza della malattia in questione come, nel caso specifico, il controllo del peso e la distorsione della propria massa corporea. Eppure, tali sintomi non si ritrovano invece nel caso di altri problemi alimentari, come l’ortoressia, dove il paziente riesce comunque a mantenere il suo peso nella norma (secondo il calcolo dell’indice di massa corporea) nonostante segua un’alimentazione scarsa e a base di soli cibi ipocalorici.

Nel caso di questo disturbo, la sofferenza in questione si manifesta principalmente attraverso due quadri clinici, quello ansioso e quello depressivo. Infatti, attenersi a un regime alimentare così rigido e difficile da rispettare crea stress e malumore dovuti anche alle ripercussioni sui loro rapporti sociali. Se, infatti, le persone con ortoressia riescono a seguire la dieta senza danni al fisico (che tendono solitamente a sopraggiungere molto in ritardo, perché per lungo tempo l’organismo riesce a resistere anche in condizioni di restrizione alimentare), esse soffrono a causa delle conseguenze sul piano sociale e relazionale. Si trovano ad esempio nella condizione di non voler andare in pizzeria con gli amici oppure a litigare con i familiari che esprimono continue preoccupazioni riguardo alla loro dieta ed esercitano pressioni per convincerli a modificarla”.
Se solitamente le persone con ortoressia non si rendono conto di avere un problema e soffrono soprattutto perché si sentono stressate da coloro che le circondano, rimane da chiedersi come sia possibile uscirne.

Molto spesso, gli stili alimentari cambiano con il mutare delle circostanze di vita, premette Caracciolo. “Questi cambiamenti possono avere un effetto sia positivo che negativo sulle abitudini alimentari e rappresentare quindi la soluzione o la causa scatenante di un disturbo di tal genere. Ad esempio, trasferirsi altrove per motivi di studio o di lavoro e andare a vivere da soli per la prima volta può essere un incentivo a cambiare le proprie abitudini alimentari adattandole alle caratteristiche di un nuovo ambiente o ai nuovi ritmi quotidiani. In questi casi, mentre la maggior parte delle persone si adatta facilmente, quelle più vulnerabili – a causa, ad esempio, di un rapporto difficoltoso preesistente con il cibo o con il proprio corpo – possono sperimentare un peggioramento delle loro condizioni di salute. È anche ipotizzabile, come accade per l’anoressia nervosa (per cui è stato dimostrato che alcuni tratti genetici possano predisporre una persona a sviluppare questa malattia) che anche per l’ortoressia esistano fattori di rischio ereditabili”. Come spiega il professor Caracciolo, la presenza di determinati eventi che modificano le abitudini quotidiane in alcuni casi può anche cambiare le cose in meglio, spingendo la persona ad assumere uno stile alimentare meno estremo. Nei casi in cui, invece, si renda necessario un intervento terapeutico, è fondamentale l’instaurazione di un rapporto di fiducia tra medico e paziente.

“Bisogna sempre tenere a mente che ogni incontro a scopo terapeutico viaggia su un doppio binario”, ricorda il professor Caracciolo. “Il primo è rappresentato dalle cure (in questo caso mirate alla modificazione dei comportamenti ossessivi del paziente) mentre l’altro è la fiducia. Se manca quest’ultima, ogni intervento rischia di fallire. Per costruire il terreno comune per una relazione medico-paziente proficua è necessario, prima di tutto, che la richiesta di aiuto provenga in prima persona da chi ne ha bisogno, e non da parte di amici e parenti. È importante inoltre mantenere costantemente il legame di fiducia in questione attraverso tutte le fasi del percorso diagnostico e terapeutico facendo in modo che l’intera equipe multidisciplinare che segue la persona faccia squadra con lei senza criticarla, giudicarla o darle obiettivi impossibili da raggiungere, bensì incoraggiandola a raggiungere un equilibrio.
Potremmo dire che proprio l’equilibrio è il concetto chiave per uscire da questo e altri disturbi alimentari simili. Va trovato un equilibrio tra l’immagine che si vede di sé e quella che si desidera avere e tra il tipo di alimentazione a cui si vorrebbe aderire e la realtà dei fatti che non sempre rende possibile rispettarla. Dobbiamo infine ricordare che, anche nei casi più difficili – e non si tratta di un semplice augurio, ma di un dato di fatto – non bisogna mai perdere la speranza. Esiste sempre la possibilità di uscire da un disturbo alimentare”. 

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Virtanen e il “solar food”, cibo del futuro

Pubblichiamo un interessante articolo di Giovanni Ballarini comparso il 15 febbraio 2023 su Georgofili INFO, il Notiziario di informazione dell'Accademia dei Georgofili. 


Virtanen, chi era costui? Pochi zootecnici e agricoltori ricordano il finlandese Artturi Ilmari Virtanen (1895 – 1973) Premio Nobel per la chimica 1945 con le sue ricerche sui batteri azoto-fissanti dei noduli radicali delle leguminose e le sue ricerche sull’alimentazione sintetica delle vacche pubblicate nell’ormai lontano 1966 (Virtanen A. I. – Milk Production of Cows on Protein-Free Feed – Science 153, 1603-1614, 1966). Virtanen infatti alleva bovine per più generazioni alimentandole con la carta degli elenchi telefonici, urea e sali minerali, raggiungendo livelli giornalieri di oltre dieci chilogrammi e arrivando a produzioni annuali di oltre quattromila chilogrammi, dimostrando il ruolo della biosintesi proteica dei microrganismi ruminali partendo da semplici composti azotati. Oggi il motivo per ricordare Virtanen sono le ricerche che si stanno compiendo ora in Finlandia con il progetto Solar Food, una startup che riesce a produrre una proteina da cellula singola, registrata col nome di Solein, impiegando solamente acqua, aria ed elettricità da fonti rinnovabili. I ricercatori della finlandese Lappeenranta University of Technology nei laboratori del Vtt Technical Research Centre sono riusciti a produrre una proteina da cellula singola, registrata col nome di Solein usando un organismo unicellulare, simile a quelli presenti nel suolo e nel rumine degli animali, usando un bioreattore, l’idrogeno proveniente dall’idrolisi dell’acqua da fonti rinnovabili, l’anidride carbonica e l’azoto provenienti dall’atmosfera, ottenendo  una polvere composta dal 65% circa di proteine, dal 10 al 20% di carboidrati e dal 4 al 10% di grassi con la parte restante parte di minerali. Insapore, la polvere può essere usata in molti prodotti alimentari vegetariani o vegani, trasformandola anche in alimenti simili a yogurt, bevande a base vegetale, pasti completi. In corso è la procedura per un parere da parte dell’EFSA, Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare.

L’intero processo di produzione del Solein avrebbe una produzione di quattrocento grammi di anidride carbonica per chilogrammo di prodotto, rispetto ai quarantacinque chilogrammi della carne bovina e ai due chilogrammi per le piante più efficienti. Per un chilogrammo di proteina servono duecento litri di acqua, con un’impronta idrica dalle cento alle cinquecento volte inferiore alla produzione di carne e dei vegetali più comuni. Inoltre, il processo avviene in stabilimenti che non hanno bisogno di nuovi consumi di suolo.
La prima alimentazione umana è stata quella della caccia e della raccolta dei vegetali. Una prima rivoluzione inizia circa diecimila anni fa con la produzione del cibo attraverso l’allevamento degli animali e la coltivazione dei vegetali con l’agricoltura, una rivoluzione ancora in corso con gli allevamenti di pesci, gli allevamenti intensivi di ogni tipo di animali, le coltivazioni idroponiche. Oggi si sta affacciando una seconda, nuova rivoluzione alimentare umana con una produzione biosintetica degli alimenti, partendo da molecole semplici e usando l’energia solare, in un certo senso tornando alle origini della vita e a come i vegetali fanno con la clorofilla che usa i raggi solari per produrre materia organica. Una rivoluzione alimentare quest’ultima che parte anche dalle vacche di Virtanen alimentate con elenchi del telefono e urea.

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La necessità di pensare a città “biofiliche”. Un nuovo approccio di progettazione per spazi urbani vivibili e sostenibili

Pubblichiamo un articolo di Francesco Ferrini comparso il 25 gennaio 2023 su Georgofili INFO, il Notiziario di informazione dell'Accademia dei Georgofili. 


Le città di tutto il mondo stanno crescendo drammaticamente. Oggi il 55% degli abitanti del pianeta vive in aree urbane ed entro il 2030 si prevede che il 60 per cento della popolazione mondiale, ovvero quasi 5 miliardi di persone, vivrà nelle aree urbane. I movimenti di popolazioni non sono mai avvenuti in precedenza con questa velocità e con questa modalità. Tuttavia, le città non si stanno solo espandendo, ma stanno anche cambiando nei loro ruoli e nella loro funzione. La deindustrializzazione, l'aumento della mobilità e un settore dei servizi in crescita hanno visto le aree urbane trasformarsi in economie di consumo post-industriali basate sulla conoscenza piuttosto che sulla produzione. Emerge da questo spostamento del focus della funzione delle città un cambiamento “evolutivo” nella forma e nei modi in cui le città stesse dovrebbero essere progettate e costruite e come la natura dovrebbe far parte di questo cambiamento. Ciò ha attirato ulteriori ricerche e sviluppi da parte di persone interessate e con obiettivi comuni e il desiderio di consentire una maggiore opportunità per gli abitanti delle città di affiliarsi con la natura, e di tutti i vantaggi che ciò offre, all'interno dell'ambiente urbano. L'attenzione sulla connessione uomo-natura non è più relegata agli ambientalisti e alle aree naturali al di fuori delle città; è una richiesta che proviene dagli abitanti delle città.

Il design biofilico
Si è perciò evoluto un movimento sociale basato sul design biofilico sostenuto dall'aumento della popolazione urbana e dal cambiamento della funzione della città che ha portato a una dinamica mutevole e all'interazione tra luoghi e spazi urbani. Questa trasformazione recente, e in espansione, negli insediamenti urbani umani richiede un nuovo approccio alla costruzione delle città. Le città devono essere progettate, pianificate, costruite e adattate per essere sostenibili e vivibili (Storey e Kang 2015). La maggiore densità edilizia, i canyon urbani e le superfici impermeabilizzate modificano il clima locale, in particolare la temperatura, aumentando il fenomeno noto come effetto isola di calore urbano.
Questa correlazione tra l'aumento della popolazione urbana globale, il cambiamento climatico e l'effetto isola di calore urbano e la necessità di città vivibili a densità più elevata è presente in tutta la letteratura che tratta di sostenibilità e che discute di città e design. In questo quadro, la natura e il design biofilico stanno trovando un rinnovato status e riconoscimento come componenti essenziali di una città sana e sostenibile. Esempi globali di progettazione biofilica dimostrano che in molti casi l'iniziativa non è una risposta puramente funzionale alle sfide della sostenibilità di una città. C'è una motivazione al di là della funzione. Ci sono indicatori che ci dicono che si è verificato un cambiamento nell'approccio alla connessione tra uomo e natura urbana. I principi della progettazione biofilica rappresentano queste nuove iniziative emergenti che si stanno verificando nelle città. La biofilia non è dunque solo un problema di progettazione, ma un movimento costruito attorno all'idea che la connessione alla natura è un bisogno umano fondamentale. È il riconoscimento di questa necessità che ha catturato l'attenzione di così tante persone, non solo dei progettisti. Affrontare gli aspetti sociali del design biofilico solleva importanti nuove questioni compresa la “democratizzazione” della biofilia. Se la connessione alla natura è, infatti, una necessità umana evoluta, allora è una necessità che deve essere condivisa da tutti – non solo da coloro che possono permettersi di vivere in aree con spazi verdi e lavorare negli edifici con caratteristiche ed elementi naturali.

Pianificazione e progettazione di città migliori
La realizzazione che l’Homo sapiens è ora diventata prevalentemente una specie urbana significa che la necessità di riconnettersi con le qualità dell'ambiente naturale in cui ci siamo evoluti sta diventando sempre più importante. Parchi, giardini, presenza dell’acqua e viste sulla “natura” sono stati a lungo evidenti nel recinto dei ricchi. Oggi dobbiamo estendere quelle esperienze a tutti, ogni giorno.
Un punto di partenza critico nella pianificazione e nella progettazione di città migliori è infatti affrontare le profonde disuguaglianze nella presenza e nell'accesso alla natura nel paesaggio urbano. Alcune recenti ricerche hanno illustrato le disuguaglianze che esistono nella copertura arborea nei quartieri cittadini, il drammatico impatto differenziale che ciò può avere sull’isola di calore urbano all'interno di una singola area della città e la correlazione di queste disuguaglianze con pratiche di pianificazione “socialmente” sbagliate. Le conseguenze di queste pratiche di pianificazione discriminatorie continuano a influenzare le comunità disagiate e quelle socialmente deboli esponendole a temperature ambientali più elevate, a maggiori livelli di inquinamento atmosferico e a un minor accesso alle risorse ambientali come gli spazi verdi pubblici.
La pandemia ha purtroppo esacerbato queste disuguaglianze. A causa dell’isolamento dei residenti, gli spazi verdi continuano a rivelarsi una risorsa preziosa, ma privilegiata. Anche dove sono disponibili parchi pubblici, la percezione dell'accessibilità del parco e l'investimento della città nei parchi locali influenza chi sta effettivamente beneficiando dello spazio verde urbano. Il miglioramento dell'accesso non è semplicemente una questione di vicinanza al parco, ma anche di qualità di questi spazi e di esistenza di barriere, non solo fisiche, che ne limitano la fruizione per tutte le comunità.
Tuttavia, la pandemia ha anche accelerato l'introduzione di interventi per iniziare ad affrontarle, poiché ha ancora di più evidenziato l'importanza dell'accesso alla natura e agli spazi aperti nelle nostre città per la nostra salute sociale, fisica e mentale. È stato dimostrato che le persone che vivono in quartieri con un inquinamento atmosferico peggiore, che spesso mancano anche di spazi verdi, hanno evidenziato un tasso di mortalità più elevato per Covid-19. L'accesso alla natura urbana ha anche dimostrato di influenzare la riduzione dello stress e nella socializzazione, con i parchi urbani che ricevono attenzione sui benefici della natura mentre gli abitanti delle città cercano uno spazio esterno più sicuro in cui lavorare, socializzare e giocare.
Questa rinnovata attenzione è supportata da una tendenza nella pianificazione e progettazione urbana che sta cercando di fornire opportunità per connettere gli abitanti delle città con la natura attraverso progetti di servizi ecosistemici basati sulla comunità, interventi di progettazione rigenerativa e biofilica e spazi verdi residenziali, tutti collegati a un aumento del benessere, della concentrazione, della socializzazione, del senso del luogo e della connessione con la natura. Tuttavia, continua a esserci una disconnessione tra il nostro bisogno di natura, la nostra esperienza quotidiana vissuta e il comportamento sostenibile, in parte radicata nell'incapacità di comprendere come interpretare e applicare la ricerca sulla natura e la salute a diversi progetti e interventi politici a scale diverse.
In particolare, i problemi emergono da una disconnessione tra principi di progettazione biofilica, interventi di pianificazione urbana e risultati specifici di salute e benessere, nonché da una mancanza di integrazione tra le diverse discipline. Questa confusione ha implicazioni reali poiché edifici, città e regioni tentano di allineare gli obiettivi di progettazione rigenerativa con quelli di salute umana, ma spesso mancano degli strumenti e delle conoscenze per farlo, il che può comportare una mancanza di prove a sostegno dell'efficacia di questi interventi.
In particolare, un approccio sbagliato per affrontare le disuguaglianze può spesso creare impatti non intenzionali. Quando le città migliorano la presenza e l'accesso alla natura, le comunità più deboli possono essere sfollate a causa dell'aumento dei costi abitativi e del costo della vita, portando al fenomeno della gentrificazione. Di conseguenza dovremo puntare a città "just green enough" che uniscano, quindi, i miglioramenti alle infrastrutture naturali con gli sforzi per affrontare altre priorità delle comunità esistenti, come l'accesso al cibo e lo sviluppo del lavoro. Invece di una conversione su vasta scala di aree per parchi, il potenziale per evitare l'eco-gentrificazione potrebbe risiedere negli interventi su scala ridotta che sono ben dispersi e progettati in combinazione con altre risorse, come l'occupazione e il sostegno alla proprietà della casa. Con l'obiettivo che la comunità in atto sia quella meglio servita dai nuovi miglioramenti basati sulla natura.
Gli spazi verdi urbani possono essere dunque uno strumento prezioso per creare condizioni di parità per le comunità svantaggiate in un'ampia gamma di contesti, inclusi i benefici economici e sanitari, maggiore sicurezza e resilienza agli eventi calamitosi. Per raggiungere questo obiettivo, i progetti che mirano a migliorare lo spazio verde urbano per essere realmente equi devono avere il consenso delle comunità. Partendo da queste basi, e in relazione alle criticità emerse e le possibili azioni di medio e lungo periodo, anche nell’ottica del PNRR, le città possono, o meglio devono, compiere tre passi cruciali per assicurarsi che i benefici sanitari, economici e ambientali degli spazi verdi urbani diventino motori di una maggiore equità sociale.
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Fonte
https://www.georgofili.it/
immagine da homepage ilBolive, UniPd

La vita delle api mellifere potrebbe essersi dimezzata negli ultimi 50 anni, di Barbara Paknazar

Pubblichiamo un interessante articolo comparso il 10 gennaio 2023 su "Il Bo Live" dell'Università di Padova


La vita media delle api mellifere potrebbe essersi dimezzata nel corso degli ultimi 50 anni, passando da 34 a 17 giorni. A questo risultato, che aggiunge un nuovo motivo di preoccupazione sul futuro di questo straordinario insetto, è giunto uno studio condotto da due entomologi dell'università del Maryland che hanno realizzato la scoperta mentre conducevano esperimenti sull’alimentazione di esemplari allevati in laboratorio. Lo scopo iniziale degli scienziati era quello di valutare gli effetti ottenuti affiancando acqua semplice alla dieta a base di acqua zuccherata con cui tipicamente vengono nutrite le api in cattività. L’obiettivo era quello di imitare meglio le condizioni naturali in cui vivono le api. Confrontando i risultati con quelli sulla storia dell'approvvigionamento idrico negli studi in gabbia presenti in letteratura, i ricercatori hanno così osservato che, indipendentemente da come venivano nutrite, la vita media delle loro api era la metà di quella delle api studiate in esperimenti simili fatti negli anni ’70 negli Stati Uniti. Gli autori della ricerca, pubblicata su Scientific Reports, hanno poi utilizzato un modello matematico per stabilire il possibile impatto del dimezzamento della longevità degli alveari sui quantitativi di miele e dunque sul settore dell’apicoltura. Quello che è emerso è una diminuzione di produttività pari al 33%, in linea con i tassi medi di perdita realmente riportati dagli apicoltori statunitensi negli ultimi 14 anni.

Lo studio

I ricercatori hanno condotto lo studio raccogliendo api allo stadio di pupa entro 24 ore dalla loro uscita dalle celle dell’alveare, per poi far loro proseguire la crescita in un'incubatrice e trasferirle in laboratorio all’interno di gabbie speciali. Il fatto che le api oggetto della ricerca siano state allevate in condizioni controllate, senza quindi essere soggette a fattori ambientali dannosi come virus e pesticidi, ha portato gli scienziati ad avanzare l’ipotesi che a questo significativo declino della longevità possano contribuire cause genetiche. “Noi isoliamo le api dalla colonia appena prima che diventino adulte, dunque tutto ciò che sta riducendo la loro longevità, avviene prima di questo passaggio", ha spiegato Anthony Nearman, primo autore dello studio. È stato proprio Nearman, studente di dottorato al dipartimento di Entomologia dell’università del Maryland, ad accorgersi per primo che la vita media delle api operaie allevate in laboratorio era di appena 17 giorni, indipendentemente dal tipo di alimentazione somministrata all’insetto impollinatore. Una revisione approfondita dai dati presenti in letteratura ha quindi permesso di constatare che negli anni ’70 le api operaie in gabbia vivevano in media oltre 34 giorni e il declino della longevità è risultato essere costante lungo l’intero arco di mezzo secolo, nonostante gli standard con cui vengono mantenute le api in laboratorio siano andati progressivamente migliorando.
E sebbene le condizioni presenti in laboratorio siano molto diverse da quelle che contraddistinguono le colonie negli alveari, la vita media delle api di laboratorio si è sempre dimostrata simile a quella delle api in colonia (che per le operaie è pari a poco più di un mese).
Le cause che hanno portato al dimezzamento della vita media delle api allevate in laboratorio restano ancora da chiarire: il fatto che gli insetti siano stati precocemente portati in condizioni controllate tende a far escludere un ruolo da parte di agenti patogeni, inquinamento o pesticidi (sebbene in generale sia assodato che alcuni prodotti fitosanitari usati in agricoltura abbiano pesanti ripercussioni sulle api). Al riguardo i ricercatori spiegano che per quanto non si possa del tutto scartare la possibilità che fattori ambientali, come appunto virus o pesticidi, siano entrati in gioco durante lo stadio larvale degli insetti, quando stanno covando nell'alveare e le api operaie le stanno nutrendo, gli esemplari studiati non hanno manifestato sintomi evidenti che fossero riconducibili a questa tipologia di esposizioni. Per questo motivo Anthony Nearman e il co-autore Dennis van Engelsdorp hanno avanzato l'ipotesi che la longevità delle api si sia ridotta a causa di cambiamenti genetici che potrebbero a loro volta essere la conseguenza involontaria delle pratiche di selezione condotte dagli apicoltori: le colonie costituite da api che vivono meno tempo potrebbero apparire più sane ed essere state quindi favorite dagli apicoltori rispetto a quelle composte da api che vivono più a lungo ma che sono colpite da malattie o da patogeni. Questo studio è il primo a mostrare un declino complessivo della durata della vita delle api da miele potenzialmente indipendente da fattori di stress ambientali, il cui impatto sulle api è comunque fortemente distruttivo, come recentemente ricordato anche dall'esperienza che Paolo Fontana entomologo e apidologo della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, ha condiviso con Il Bo Live. La sopravvivenza delle api è infatti già messa a dura prova da molte pressioni: solo per citare qualche esempio, un recente studio dell'università di Bristol pubblicato su Pnas Nexus ha scoperto che i fertilizzanti alterano il modo in cui le api percepiscono i fiori, scoraggiandone la visita. C'è poi il ben noto problema della tossicità delle sostanze chimiche usate in ambito agricolo dove, secondo uno studio pubblicato nel 2021 su Science, in un decennio l'impatto tossico dei pesticidi sulle api e altri impollinatori è raddoppiato, nonostante un calo della quantità di prodotti utilizzati. A tutto questo si aggiunge poi l'alterazione dell'habitat delle api con una forte perdita delle superfici dei prati di fiori selvatici, convertiti in suoli agricoli.
La ricerca condotta da Nearman e vanEngelsdorp si propone adesso di confrontare i dati provenienti da altri paesi del mondo per scoprire se la tendenza è in atto anche al di fuori degli Stati Uniti. E non bisogna dimenticare che le condizioni di laboratorio possono nascondere dettagli difficilmente confrontabili a distanza di mezzo secolo, come i materiali delle gabbie o la velocità del flusso di aria negli incubatori.
La vera sfida è adesso capire se la vita media delle api mellifere si è ridotta anche in natura e se un simile trend è comune a diverse specie di api. A questa domanda occorre trovare presto una risposta: le api e altri insetti impollinatori sono essenziali per un buon raccolto per il 75% delle colture che coltiviamo in tutto il mondo. Inoltre impollinano circa l'80% di tutte le piante selvatiche e hanno un ruolo fondamentale per la tutela della biodiversità. Le conseguenze del loro declino riguardano tutti noi.

Leggi l'articolo su ilbolive.unipd

 

foto da Georgofili Info

“Benessere animale certificato” di Ermanno Comegna

Pubblichiamo un articolo comparso il 14 dicembre 2022 su "Georgofili Info", Notiziario di informazione a cura dell'Accademia dei Georgofili


Dal 2023, sarà attivo in Italia un sistema unico ed armonizzato di certificazione volontaria del benessere degli animali, secondo le regole stabilite nel decreto ministeriale del 2 agosto scorso, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 29 novembre 2022.
Il Sistema di qualità nazionale per il benessere degli animali (SQNBA) è stato istituito con l’articolo 224 bis del decreto legge 19 maggio 2020 n. 34, successivamente convertito in legge e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 18 luglio 2020 (“Decreto rilancio” predisposto per introdurre misure urgenti a seguito del Covid).
Gli obiettivi politicamente rilevanti sono molteplici, ma due appaiono quelli principali. Il primo riguarda la necessità di armonizzare a livello nazionale i requisiti e le regole applicabili per la certificazione degli allevamenti che ottengono prestazioni elevate in materia di salute e benessere degli animali. Attualmente sono attivi in Italia diversi modelli privati di certificazione, ognuno con sensibilità e caratteristiche proprie.
C’è inoltre, come motivazione forse strategicamente più rilevante, la volontà di conferire alla filiera zootecnica italiana uno strumento per la valorizzazione delle produzioni, in particolare quando queste derivano da allevamenti nei quali si attuano requisiti di salute e benessere degli animali, superiori rispetto a quelli previsti dalle norme comunitarie e nazionali e comunque conformi a regole tecniche predefinite che contemplano anche la gestione delle emissioni nell’ambiente. Ai fini della valorizzazione commerciale delle produzioni è previsto l’utilizzo di un marchio distintivo, ancora da definire, con il quale identificare i prodotti conformi ai disciplinari che sono stati certificati da un organismo autorizzato.
Il SQNBA diventerà, a partire dal 2023, una delle componenti della PAC, in quanto è alla base di uno specifico eco-schema che premia gli allevatori certificati, i quali, come requisito supplementare, impiegano metodi estensivi di produzione, con il pascolamento degli animali secondo regole predefinite.
L’operazione rientra nell’ambito del livello 2 dell’Eco-schema 1, dedicato alla zootecnia, con una dotazione finanziaria che ammonta a 65 milioni di euro per anno e premi di importo indicativo unitario di 240 euro per UBA nel caso di bovini da latte, da carne ed a duplice attitudine e 300 euro per UBA per i suini certificati ed allevati allo stato brado.
Il funzionamento del sistema di certificazione volontario ad oggi non è ancora operativo, per almeno due ordini di motivi. In primo luogo perché è necessaria una preventiva autorizzazione della Commissione Europea che approvi il progetto di regola tecnica in materia di SQNBA che le competenti autorità nazionali hanno trasmesso nel mese di giugno scorso. Inoltre mancano i requisiti produttivi (disciplinari di produzione) che stabiliranno le regole da rispettare negli allevamenti e nelle altre fasi della filiera zootecnica per poter conseguire la certificazione di conformità in materia di benessere degli animali.

Le norme tecniche saranno distinte per specie, orientamento produttivo e metodo di allevamento e costituiranno il punto di riferimento sul quale gli allevatori e gli altri operatori dovranno basare i loro comportamenti per partecipare al modello gestionale virtuoso ed ottenere, così, il rilascio della conformità.

La regia che permette il funzionamento del SQNBA è affidata ad un organismo tecnico scientifico con il compito di definire il regime e le modalità di gestione del sistema qualità, comprese le regole per il ricorso alla certificazione e all’accreditamento degli organismi abilitati.
Il decreto ministeriale pubblicato di recente definisce l’architettura ed il funzionamento del modello di certificazione e rimanda a successivi provvedimenti, per le decisioni in materia in materia di disciplinari di produzione, definiti nel testo come “requisiti di certificazione relativi all’allevamento delle specie di animali di interesse zootecnico”.
In particolare, il provvedimento ministeriale istituisce il Comitato tecnico scientifico benessere animali (CTSBA), attribuendo ad esso anche il compito di individuare il segno distintivo con il quale identificare i prodotti certificati. Fanno parte del Comitato i rappresentanti dei Ministeri competenti (Agricoltura e Salute) e delle Regioni e delle Province autonome, gli esperti in materia di benessere animale ed un componente di Accredia (organismo nazionale di accreditamento).

Alla base del funzionamento del processo di certificazione, c’è il sistema informativo di categorizzazione degli allevamenti in base al rischio (Classy Farm), istituito dal Ministero della Salute. I dati gestionali degli allevamenti saranno opportunamente raccolti ed elaborati e costituiranno la base per classificare gli allevamenti e verificare la presenza dei requisiti necessari per l’accesso al SQNBA.
La certificazione volontaria può essere richiesta non solo dagli allevatori (operatori della produzione primaria) ma anche dalle imprese del settore alimentare (impianto di macellazione, operatore della trasformazione e del commercio).
La commercializzazione degli animali e dei prodotti derivati conformi al SQNBA può avvenire riportando alcune informazioni nei documenti di vendita e nelle etichette, tali da ottenere così la differenziazione commerciale ed una auspicabile valorizzazione della produzione. In tale contesto è prevista anche la possibilità di utilizzare il logo identificativo che sarà successivamente individuato con un apposito decreto ministeriale.
Il testo del provvedimento contiene alcune disposizioni che riguardano l’organismo di certificazione, con particolare riferimento ai requisiti di iscrizione e di funzionamento, di carattere generale e specifico relativo al personale, alla formazione ed alle procedure di certificazione.
Il nuovo sistema armonizzato di certificazione del benessere degli animali sembra aver considerato tutte le possibili variabili in gioco per sperare in una buona traduzione pratica dell’iniziativa, compresa la decisione di assicurare un finanziamento pubblico che potrebbe suscitare un vivo interesse. 

Ci sono però alcune questioni critiche da considerare. Intanto, si segnala la mancata stesura, ad oggi, delle regole da rispettare nella fase produttiva che sono necessarie per ottenere la conformità e rivestono una certa importanza per una compiuta valutazione dello strumento.
Poi ci sarebbe da considerare la reazione degli operatori economici che non è scontato sia positiva. Un’analoga esperienza nel campo delle produzioni vegetali (Sistema qualità nazionale produzione integrata – SNQPI), non è al momento decollata e si trascina avanti senza picchi di entusiasmo.
In tale contesto, non andrebbe dimenticato come la conformità a norme tecniche abbia un costo gestionale che un imprenditore decide di sostenere solo in caso di potenziale favorevole ritorno, almeno nel medio termine.
Infine, c’è il dubbio se iniziative del genere debbano essere governate dalla mano pubblica, oppure sia meglio lasciare al mercato e all’iniziativa privata. L’Italia, ma pure l’Unione europea, che nell’ambito del Farm to Fork pensa a regole comuni in materia di certificazione di sostenibilità e di benessere degli animali, la pensano diversamente, cionondimeno qualche interrogativo resta sulla efficacia di tale soluzione.    

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Un nuovo polo sanitario nelle vicinanze del policlinico della città del Santo. L’Università di Padova istituisce il primo insegnamento in Italia dedicato alle cure palliative per i minori

Nascerà a Padova il nuovo hospice pediatrico. tremila metri dedicati a bambini e loro famiglie. Parte il fundraising per finanziare l’opera. 


Dodici stanze, attrezzate con le più moderne tecnologie, per ospitare altrettanti bambini. Spazi dedicati al personale sanitario dove aggiornarsi e stabilire la migliore strategia per le terapie. Appartamenti per ospitare i familiari dei giovani pazienti, in modo da rendere loro più confortevole possibile la permanenza in città. Ed è proprio a Padova, la città italiana dove è nato il primo hospice pediatrico nel 2008, che si realizzerà il progetto "Nuovo Hospice Pediatrico – Centro di Riferimento regionale per le Cure Palliative e terapia del dolore pediatriche della Regione Veneto".
Nascerà così un nuovo polo sanitario dedicato alle cure palliative per bambini. Grazie all’impegno di Regione del Veneto, che metterà a disposizione gli immobili, e Azienda Ospedale – Università di Padova, l’attuale sede dell’hospice, in via Ospedale Civile, verrà sostituita da una struttura più ampia e diffusa. Le nuove 12 stanze, al posto delle attuali 4, saranno ospitate in una struttura in via Falloppio, nel cuore della città e a pochi passi dal policlinico universitario. Un altro immobile adiacente al primo, con entrata da via Sant’Eufemia, sarà punto di riferimento per il personale sanitario. Ma il progetto non si ferma qua: in via San Massimo saranno ristrutturati degli appartamenti a disposizione per le famiglie dei giovani pazienti. Ma per far diventare realtà il progetto del nuovo hospice pediatrico c’è bisogno di risorse economiche. Ed è su questo frangente che, in particolare, si sta muovendo l’associazione  "La miglior vita possibile". Realtà nata nel 2018, a Padova, per promuovere lo studio e la diffusione della cultura si pone come propria finalità quella di migliorare la condizione di salute e di vita della popolazione pediatrica che ricorre alle cure palliative.
"La miglior vita possibile" lancia quindi una raccolta fondi rivolta a tutti: istituzioni, enti pubblici e privati, mondo dell’associazionismo e cittadini, per raccogliere un’ingente somma da destinare alla realizzazione del progetto.

I numeri delle curie palliative pediatriche in Italia

Padova rimane uno dei cuori pulsanti italiani per le cure palliative pediatriche, mostrando grande attenzione per una tipologia di assistenza che ha numeri importanti nel nostro Paese. Sono infatti 35mila i bambini eleggibili alle curie palliative pediatriche, dei quali più di un terzo, 12mila, necessitano di terapie specialistiche. Il Veneto ha già una rete capillare molto ben sviluppata: 250 bambini sono presi in carico ogni giorno, con prevalenza all’assistenza domiciliare, a fronte comunque di una stima di 900 minori che necessiterebbero di cure. Numeri che fanno intuire l’importanza di strutture come quella nata a Padova (al momento una delle sette in Italia) alla quale il progetto del nuovo hospice pediatrico vuole dare ora una nuova veste. «C’è bisogno di un cambio culturale – conclude Zaccaria –. Di cure palliative pediatriche, infatti, si fa ancora troppa fatica a parlare. Siamo invece davanti a giovani pazienti che hanno il diritto di avere cure adeguate in strutture altrettanto adeguate, che hanno il diritto di coltivare i loro sogni e le loro speranze, di condurre un’esistenza piena circondati dai loro affetti più cari, di portare avanti, quindi, per tutto ciò che è possibile, le loro storie di vita. Di vita, sottolineo, parliamo quando raccontiamo degli hospice pediatrici. È fondamentale quindi superare l’approccio prettamente pietistico che si ha quando si tratta questo argomento. È importante invece porci in altri termini: quelli del diritto di vivere una vita piena. Un obiettivo che, va da sé, possiamo perseguire solo grazie a un rapporto stretto e collaborativo con le istituzioni, in particolar modo quelle deputate all’attività assistenziale».

Il primo insegnamento sulle cure palliative pediatriche in Italia

C’è un’altra importante novità che arriva dal territorio patavino. L’Università di Padova, infatti, ha istituito il primo insegnamento in Italia dedicato alle cure palliative pediatriche. Sarà attivo dal 2023 e andrà a completare l’offerta formativa dell’ateneo patavino, che già prevede un master dedicato alle cure palliative pediatriche e una scuola di specializzazione, di altrettanto recente istituzione, sul tema prezioso per pazienti e famiglie, delle cure palliative nel life-span.

Tutte le informazioni sul fundraising si possono trovare sul sito
 costruiamo.lamigliorvitapossibile.it.

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Carlo Petrini: facciamo chiarezza sul concetto di sovranità alimentare

Pubblichiamo un articolo di Carlo Petrini comparso il 25 ottobre 2022 su La Stampa e riportato su slowfood.it 


"Nelle ultime ore si fa un gran parlare di sovranità alimentare, da quando i due termini sono stati affiancati nel nuovo dicastero alla parola “agricoltura”. La cosa non mi può far che piacere perché la sovranità alimentare è alla base del lavoro di Slow Food da ormai trent’anni. Per questo vorrei fare un po’ di chiarezza rispetto alla sua genesi e al significato profondo; si tratta di un concetto importante, essenziale per il futuro dell’umanità e che non deve essere confuso né con sovranismo e neppure con autarchia.

Innanzitutto è un’espressione che nasce ed evolve dall’esperienza e analisi critica di gruppi di contadini alla luce degli effetti provocati dai cambiamenti nelle politiche agricole durante l’ultimo ventennio del secolo scorso. Correva l’anno 1986 e il gotha della politica internazionale riunito a Ginevra decise, durante una seduta plenaria dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, di includere la produzione primaria all’interno dell’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e sul Commercio.

Da quel momento in poi anche le scelte in merito alla produzione e al commercio del cibo, l’ambiente, l’accesso alla terra e la cultura legata alla vita nei campi, sarebbero state assoggettate alle regole neoliberiste del mercato internazionale. Come controrisposta, a livello mondiale iniziarono a costituirsi movimenti di base del mondo contadino con l’obiettivo di difendere il vero valore del cibo non come bene da commerciare, ma come diritto umano da garantire e tutelare. Nato in seno alla società civile, questo concetto entra poi a far parte del vocabolario istituzionale internazionale nel 1996 quando alcune organizzazioni internazionali riunite alla Fao a Roma ne conferiscono una definizione esaustiva.

Il principio di autodeterminazione dei popoli

Il principio cardine è l’autodeterminazione dei popoli nella scelta delle proprie politiche agricole affinché siano in sintonia con il tessuto ecologico, economico e sociale e garantiscano l’accesso a un cibo sano, nutriente e culturalmente appropriato. Negli anni il concetto di sovranità alimentare è stato testimoniato da milioni di contadini in tutti i continenti. L’organizzazione Via Campesina ne ha fatto la bandiera della sua lotta. La nostra stessa rete di Terra Madre, che si è riunita a Torino appena un mese fa, ne è espressione vivente: in difesa della biodiversità e della dignità dei popoli. Lo stato dell’Ecuador la sancisce all’interno della costituzione (Art. 281) come un’obbligazione dello Stato, e le Nazioni Unite la identificano come una precondizione necessaria per il raggiungimento dell’obiettivo strategico “Fame zero” dell’Agenda 2030.

Che cosa vuol dire sostenere la sovranità alimentare?

Sostenere la sovranità alimentare significa schierarsi contro pratiche inique e dannose portate avanti dall’agroindustria (monocoltura, uso pesante della chimica di sintesi, cibi ultraprocessati), così come anche da una buona parte della grande distribuzione organizzata; ponendo invece al centro il diritto al cibo sano e nutriente per tutti, insieme ai diritti umani fondamentali, e la salute del pianeta. Vuol dire riconoscere il ruolo chiave dei piccoli produttori di ogni tipo, contadini e agricoltori a conduzione familiare, con donne (principali custodi della sovranità alimentare delle famiglie nel mondo) e giovani (da cui dipenderà l’alimentazione del futuro), in primo piano. È anche rivendicare l’importanza di pratiche agroecologiche, con una maggiore facilità di accesso a terra, acqua e semi; contro la monocoltura e le pratiche di tipo estrattivista. Così come affermare l’importanza di rafforzare i sistemi alimentari radicati nel territorio rispetto alle catene di approvvigionamento globali che si sono dimostrate in tutta la loro vulnerabilità, prima con il Covid-19 e poi con il conflitto in Ucraina.

Se applicata correttamente la sovranità alimentare crea una tensione positiva tra dimensione locale e globale e permette ai popoli di essere davvero liberi nella scelta di cosa produrre e consumare, mettendo al centro il benessere delle persone e del pianeta.

Aggiungo: è così importante e trasversale che non dovrebbe essere privilegio del ministero delle politiche agricole.

Dovrebbe fare parte, ad esempio del ministero dell’ambiente che gestisce le risorse naturali difendendo biodiversità e ecosistemi. Del ministero per le politiche sociali perché oggi la fame non è sinonimo di indisponibilità di cibo, ma mancanza di risorse per accedervi. Così come da quello della salute perché la cattiva alimentazione è causa crescente di gravi malattie quali diabete, problemi cardio-vascolari, obesità e tumori.

La sovranità alimentare quindi non vuole essere né un concetto nostalgico e passatista (il caffé di cicoria non tornerà a essere l’unico disponibile), e nemmeno una chiusura rispetto al mondo esterno (continueremo a mangiare banane e ananas). In questa fase è fondamentale capire i veri significati delle parole, altrimenti sarà ben difficile prendere in castagna coloro che scientemente potranno farne un uso diverso".

 Carlo Petrini
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Fonte: slowfood.it

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Dall’economia del Cowboy all’economia dell’Astronauta

 


L’11 ottobre scorso presso la sede dell’Ordine degli ingegneri di Padova, si è svolto il convegno Pillole di SMARTCitySostenibilità, innovazione, tecnologia, organizzato dallo stesso Ordine.
Ci permettiamo di dare al nostro breve report il titolo mutuato da un’affermazione del primo dei relatori, l’ingegnere Elena Mazzola che sa coinvolgere subito l’uditorio in presenza e in streaming, composto da studenti di ingegneria e da amministratori locali, con queste due immagini: i cow-boy potevano allargare lo sguardo a perdita d’occhio sulle mandrie loro affidate, la ricchezza naturale era disponibile fino all’orizzonte senza limite. Noi attualmente dobbiamo pensare come un astronauta, ottimizzare risorse e spazi, imparare a riutilizzare e riciclare senza spreco, migliorare e aumentare l’efficienza di macchine e tecnologie.
In parole ancora più semplici: cambiare il nostro stile di vita. A volte, di fronte alla proposta di mettere il cappotto al proprio edificio, il proprietario obietta che mancherà la circolazione d’aria e che si svilupperanno muffe sui muri interni. Sì, può accadere ma solo se non facciamo rientrare nelle nostre abitudini quotidiane quella di arieggiare correttamente i locali.

La relatrice elenca le pratiche più collaudate per l’efficientamento energetico e il risultato atteso nelle nostre abitazioni:

  1. Isolamento muri e finestre: diminuzione della dispersione
  2. Lampadine a led: risparmio fino all’80%
  3. Valvole termostatiche: differenziare il calore nelle diverse stanze
  4. Fotovoltaico: sfruttamento di fonte rinnovabile, la nostra penisola avvantaggiata dal clima è l’ultima nella Comunità europea

Molto interessanti sono i dati a livello di politica e strategie locali assunte dalle Amministrazioni. Un esempio viene dal Patto dei Sindaci con la stesura dei Piani d'Azione per l'Energia Sostenibile e il Clima (PAESC). In provincia di Padova ha aderito il 90% dei Comuni, l’80% ha inserito e avviato alcune attività, un solo comune ha avviato il monitoraggio, quindi non si conoscono i risultati ottenuti. Su questo la relatrice si sofferma in modo particolare: un cambiamento di punto di vista è necessario, non possiamo investire senza sapere se e quale beneficio portino gli interventi, e ciò vale per il pubblico e per il singolo cittadino.
Il perseguimento della Green Economy deve essere accompagnato dalla Green Society, ciascun componete della comunità diventa soggetto di cambiamento iniziando dal contenere i consumi, adottare stili di vita più sobri cambiando il concetto stesso di benessere.
Qualsiasi tecnologia, singola o meglio in mix non è sufficiente a contenere i consumi e aumentare l’efficienza! Se non spengo la luce perché tanto ho la lampadina e led si capisce che non ottengo il risultato!
La creazione di Comunità Energetiche locali necessita di partecipazione sociale con la responsabilizzazione di ciascun soggetto nel passaggio da consumer a prosumer: dobbiamo essere produttori e non solo consumatori. Valuto, Consumo, Misuro sono le parole chiave.
Il secondo relatore, l'architetto Massimo Cavazzana, Sindaco di un piccolo Comune in provincia di Padova entra direttamente nel tema delle CER (Comunità Energetiche Rinnovabili) gruppi di auto consumatori di energia rinnovabile, che agiscono collettivamente. Illustra gli step necessari quali la pianificazione, programmazione, progettazione, realizzazione e gestione che è senza dubbio la fase più complessa.
 

L’architetto Cavazzana è un fautore della fonte energetica Idrogeno, gas presente in abbondanza in tutto l’universo e nel nostro pianeta dove lo troviamo in diverse molecole a partire dall’acqua. La produzione di energia da mix di fonti rinnovabili è anche alla base del processo di produzione dell’Idrogeno. Il processo di elettrolisi alimentato da energia rinnovabile, è interamente a impatto zero, senza emissioni inquinanti e senza consumo di preziose risorse naturali. La comunità scientifica e tecnologica è impegnata da tempo per rendere l’idrogeno verde più facile da produrre e più economico e, grazie agli enormi progressi fatti negli ultimi anni, il traguardo sembra ormai a portata di mano. Il relatore si dichiara convinto che nel futuro sarà la principale fonte energetica pulita con il tanto auspicato abbandono dell’uso delle fonti fossili. Mette in evidenza che per la transizione ecologica è essenziale raggiungere benefici in tre ambiti: economici, ambientali e sociali. Come amministratore locale ha già avviato alcuni progetti finanziati dal PNRR e ha in previsione di individuare, attraverso un apposito bando, le famiglie in difficoltà economiche per poterle coinvolgere in una CER.
Il Dott. Giovanni Scarazzati, terzo relatore, rappresenta ELOenergy, acronimo molto significativo che sta per Energia Locale Ovunque dove si occupa di ESG Consulenza energetica, ribadisce l’importanza di coinvolgere il cittadino nella costituzione di CER, per le quali si è in attesa di decreti attuativi, ma si può procedere anche subito. Fa alcune osservazioni molto pertinenti sulla superficialità che, a volte, manifesta incompetenza dei mass media che solo raramente forniscono, negli organi di stampa e nei dibattiti, informazioni precise e complete. Una critica non da poco se si tratta di diffondere informazioni scientifiche che mal si prestano a interpretazioni soggettive.
La corretta informazione è un punto di partenza essenziale per rendere consapevole il cittadino-utente-consumatore. Sapere quanti mc di gas consumiamo, quanti KWh di energia servono alla nostra abitazione per i diversi elettrodomestici è solo il primo passo per valutare tecniche di efficientamento energetico sia in strutture monofamiliari che condominiali. La possibilità di diventare consumatori-produttori è un traguardo molto importante nell’attuale contingenza economica e ambientale. Lo svincolarsi dalle fonti energetiche fossili diventa un imperativo categorico a causa dell’insostenibilità ambientale e l’uso delle rinnovabili è l’unica strada possibile. Ma nessuno si salva da solo, per questo è necessario porre in essere pratiche virtuose che si basino sulla condivisione. Le CER e l’Autoconsumo collettivo sono strumenti già collaudati ai quali aggiungiamo le pratiche di energy sharing. La comunità scientifica continua nello sviluppo di nuove tecnologie ma sta a chi governa sia a livello nazionale che locale, adottare normative e decreti attuativi che indirizzino in modo inequivocabile verso la transizione. Spetta a ciascuno di noi adottare le buone prassi esplicitate sopra. Aggiungiamo anche l’altro fattore importante relativo alla diffusione scientifica che deve essere affidata a persone competenti che utilizzino linguaggio chiaro e comprensibile al cittadino comune. Anche questo elemento fa parte di una transizione, quella culturale, per contrastare le fake news sempre fuorvianti.

 

med index

Sima e Università di Bari presentano “Med Index”, sistema di etichettatura sostenibile che informa i consumatori e promuove la Dieta Mediterranea

Proposta pubblicata sulla rivista Journal of Functional Foods. L’etichetta “Med Index” unisce nutrizione, ambiente e salute
 


 Si chiama “Med Index”, è nato per rispondere alla sfida lanciata dall’Unione Europea per il 2024 nell’ambito della strategia Farm to Fork. E' un nuovo sistema di etichettatura dei prodotti alimentari che unisce nutrizione, salute e ambiente, promuovendo la Dieta Mediterranea e incoraggiando i produttori a realizzare alimenti sempre più sani e sostenibili. E' stato pubblicato sulla rivista internazionale Journal of Functional Foods, sede editoriale dove gli ideatori della nuova etichettatura, Sima e Università di Bari, hanno illustrato i vantaggi di tale innovativo sistema.
Med Index è concepito come un'etichetta olistica, completa e applicabile dai produttori alimentari in quanto basata su criteri misurabili, ampiamente condivisi dagli stakeholder, ma generalmente adottati su base individuale.
Med Index copre i tre pilastri della sostenibilità (nutrizionale, ambientale e sociale), con la valutazione di 27 criteri (9 per ogni pilastro), la cui presenza o assenza è resa immediatamente visibile al consumatore attraverso un unico sistema di etichettatura positiva. Nessun algoritmo complicato o onere di lavoro per le aziende che desiderano utilizzare il Med Index, ma una checklist convalidata che “aggrega” e “riassume” una serie di informazioni e certificazioni già utilizzate, spesso frammentate, non immediatamente visibili o in grado di attirare l’attenzione del consumatore, incidendo sulla percezione del valore del prodotto.
“Nel 2024 la Commissione Europea esaminerà le proposte di etichettatura degli alimenti mirate ad aumentare la consapevolezza nell’acquisto di alimenti sostenibili – ricorda Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale –. Assieme al gruppo di ricerca del Centro “Cibo in Salute” dell’Università di Bari coordinato dalle Prof.ssa Clodoveo e Corbo, abbiamo voluto studiare un sistema che oltre a fornire nuove e più complete informazioni ai consumatori, promuova una alimentazione sana come la Dieta Mediterranea che, secondo tutte le evidenze scientifiche, rappresenta un fattore determinante di prevenzione, contrastando il rischio di insorgenza di importanti patologie croniche come diabete, ipertensione arteriosa ed obesità, oltre ad avere impatti positivi sull’ambiente” – conclude Miani.
“Il Med Index- commenta la Prof.ssa Maria Lisa Clodoveo – correla la densità energetica della porzione di alimento all’attività fisica necessaria per bilanciare l’input calorico, promuovendo un’attività fisica regolare, ma soprattutto incrementa la consapevolezza all’acquisto di cibi sani e sostenibili poiché rompe l’asimmetria informativa che caratterizza spesso il mercato dei prodotti alimentari.”