20-22 maggio 2024: NBFC (National Biodiversity Future Center) apre a Palermo il Forum Nazionale della Biodiversità

di Alessandro Campiotti

Lo slogan scelto per celebrare la Giornata mondiale della biodiversità è “Essere parte del Piano”, un invito rivolto a tutti i soggetti interessati al fine di agire concretamente sulla perdita di biodiversità in attuazione del Quadro globale di Kumming-Montreal.

Dal 20 al 22 maggio, in occasione della Giornata mondiale della biodiversità 2024, istituita dalle Nazioni Unite nel 1992 per commemorare l’adozione della Convenzione sulla diversità biologica di Rio de Janeiro, l’Università degli Studi di Palermo ospiterà il Forum Nazionale della Biodiversità, convegno scientifico organizzato in collaborazione con il National Biodiversity Future Center (NBFC), centro di ricerche finanziato nell’ambito dei progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per il periodo 2022-2025.

L’evento vedrà la partecipazione della comunità scientifica nazionale e internazionale, con oltre 600 ricercatori, oltre ai rappresentanti istituzionali e del mondo delle imprese, con l’obiettivo di condividere i risultati più significativi della ricerca e orientare le azioni future in materia di salvaguardia degli ecosistemi.

In particolare, verrà presentato il primo “Rapporto annuale sullo stato della Biodiversità in Italia”, un documento sostenuto dalle ricerche condotte finora, che costituirà il database dello stato dell’arte della biodiversità in Italia e un utile strumento per orientare le politiche nazionali e locali, oltre a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della lotta alla perdita di biodiversità.

Nelle prime due giornate, 20 e 21 maggio, si terrà il convegno scientifico, articolato in una serie di sezioni nelle quali verranno illustrati i risultati delle ricerche degli 8 Spoke del NBFC, che rappresentano l’intera diversità ecosistemica, costituita da mare, terra e ambienti urbani. Gli argomenti all’ordine del giorno saranno la conservazione e il restauro del capitale naturale, la riqualificazione delle aree urbane degradate, così come il rapporto tra natura e benessere umano e le sfide socioeconomiche poste dai cambiamenti climatici, sino allo sviluppo degli strumenti e del know-how necessario a prevenire e mitigare la perdita di biodiversità.

I temi che verranno discussi si collocano nell’ambito delle numerose sfide poste dalla “Strategia europea sulla biodiversità al 2030”, che tra i suoi principali obiettivi annovera la protezione di almeno il 30% delle aree terrestri e la riqualificazione del 30% degli ecosistemi degradati entro il 2030.

Nelle diverse sezioni del convegno si alterneranno brevi talk a tavole rotonde e momenti di dibattito e verranno presentati gli oltre 300 poster scientifici relativi alle principali pubblicazioni, di cui i migliori riceveranno un premio.

La terza e ultima giornata sarà invece dedicata al tema della “diplomazia scientifica”, declinata sotto forma di dialogo tra il mondo della ricerca, le istituzioni, le imprese e i professionisti operanti nel settore. In occasione del Forum, verrà presentato il progetto “Biodiversity Science Gateway” (BSG), promosso da Università degli Studi di Palermo, ARPA Sicilia, CNR e NBFC, con l’obiettivo di presentare le attività svolte da NBFC tramite piattaforme digitali, database, mostre ed eventi, con il fine di coinvolgere la pluralità di stakeholders e la cittadinanza sui temi della biodiversità e della conservazione degli ecosistemi.

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“Nella testa di un gatto”

di Anna Cortelazzo

Un articolo di di Anna Cortelazzo pubblicato il 2 maggio 2024 sul “Bo Live” dell’Università di Padova

“Prima di cominciare a recensire Nella testa di un gatto di Jessica Serra (edito da Carocci) devo confessare una mia debolezza: sono una gattara impenitente, non a livello di quella dei Simpson ma poco ci manca. Il primo libro sui gatti l’ho comprato a 8 anni, quando non sapevo nulla sul concetto di affidabilità delle fonti, e credevo che ogni autore meritevole di finire sugli scaffali di una libreria fosse qualificato per parlare dell’argomento. Non ricordo sulla base di che criterio avessi scelto proprio quel libro, probabilmente mi piaceva il gatto sulla copertina, ma in ogni caso era di Desmond Morris: quando si dice cadere in piedi.
Da allora ci sono stati tanti libri e tanti gatti (miei o degli amici che d’estate me li affidavano), ma anche tante domande più o meno dilettevoli che mi venivano poste. Una di queste mi ha messo un po’ in crisi: ma un gatto d’appartamento riuscirebbe a cavarsela se l’essere umano si estinguesse?

So che molti gattofili (più tecnicamente: ailurofili) risponderebbero che con quegli occhioni qualsiasi felino domestico riuscirebbe a convincere anche un topo a sacrificarsi e trasformarsi in delizioso pranzetto, ma sottovalutare l’istinto di sopravvivenza di altre specie mi sembra francamente azzardato. Bene, nel libro di Jessica Serra ho trovato la risposta, ma ne parliamo dopo.
Serra è un’etologa francese specializzata in cognizione animale che per anni ha condotto il programma televisivo La vie secrète del chats. L’abitudine a frequentare diversi canali di comunicazione risulta evidente dallo stile del libro, da cui emerge la capacità dell’autrice di tradurre concetti scientifici complessi in una prosa accessibile e coinvolgente, rendendo la lettura avvincente per chiunque sia interessato alla mente dei felini, anche se non ha conoscenze etologiche pregresse. Con una combinazione di rigore scientifico e passione per il soggetto, Nella testa di un gatto ci offre un nuovo modo di guardare i nostri amici a quattro zampe, invitandoci a esplorare il loro mondo con occhi nuovi e una mente aperta.

Sono citate anche le ricerche più recenti, e questo spiega perché sono riuscita a trovare informazioni che non conoscevo, anche se sono solita piantonare le pubblicazioni scientifiche sull’argomento. Inoltre lo sguardo di un’etologa molto concentrata sull’aspetto evolutivo e sulla filogenesi permette di fare collegamenti fuori dalla portata dei semplici appassionati come me. Spesso Serra, pur precisando che non ci sono ancora articoli scientifici su determinati temi (i cani sono da sempre più studiati dei gatti perché sono considerati più collaborativi) ci restituisce le sue idee personali, ovviamente motivandole, e queste ipotesi suonano molto plausibili: le prendiamo per buone in attesa che, come lei si auspica, vengano confermate dai ricercatori.

Il titolo suona piuttosto riduttivo, per due motivi: il primo è che non si parla soltanto di gatti, ma anche di ricerche su altri animali, come la storia di Santino, di cui abbiamo scritto anche noi. Molto toccante è il punto in cui Serra cerca di rispondere alla domanda sulla consapevolezza della morte, che il gatto non avrebbe, a differenza dei gorilla. Serra riporta le parole di Coco, una gorilla addestrata a parlare nella lingua dei segni: quando le chiesero dove andavano i gorilla dopo la morte, lei rispose “Buco comodo, addio” e alla domanda su come si sentono i gorilla quando muoiono, nonostante i suggerimenti dell’assistente (“felici, tristi, spaventati”) Coco rispose “assonnati”. Il gatto invece sente la mancanza di umani e altri animali familiari che sono deceduti, ma a differenza dello scimpanzé non riesce probabilmente a comprendere che non torneranno più.

In secondo luogo, il testo si amplia in digressioni storico sociali, raccontando per esempio come è avvenuta la domesticazione, come se la passavano i gatti (non necessariamente neri) negli anni bui del Medioevo, quando erano perseguitati perché associati alle presunte streghe e hanno addirittura sfiorato l’estinzione, altre curiosità storiche come l’assedio di Pelusio, quando i persiani attaccarono 600 gatti ai loro scudi e gli Egizi rinunciarono al combattimento (ma non fatevi ingannare: è vero che per gli Egizi i gatti erano sacri, ma in virtù di questo alcuni di loro venivano allevati appositamente per essere sacrificati a Bastet) e, per finire, incursioni letterarie e cinematografiche (a proposito, se ve lo steste chiedendo, i gatti preferiscono la musica rock, veloce e acuta, rispetto alla musica melodica)….

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La biodiversità per l’innovazione e la resilienza nei sistemi agroalimentari

di Stefania De Pascale

Un articolo di Stefania De Pascale pubblicato il 10 aprile 2024 su GeorgofiliINFO

l termine biodiversità, usato in molteplici circostanze e talvolta abusato, è molto più di una semplice parola alla moda. Questo concetto, cruciale in ecologia, si riferisce alla vasta varietà delle forme di vita ed è stato introdotto dall’entomologo Edward O. Wilson nel 1986. La biodiversità abbraccia la variabilità genetica entro le specie, la diversità tra specie diverse e la varietà degli ecosistemi. Questa diversità biologica è vitale per la resilienza e la sopravvivenza delle specie e degli ecosistemi, permettendo loro di adattarsi ai cambiamenti e alle perturbazioni ambientali. Tuttavia, l’interpretazione comune di biodiversità spesso ignora la sua estensione, limitandosi all’agrobiodiversità, ovvero alla varietà di piante coltivate e animali domestici, che rappresenta solo una piccola frazione della biodiversità complessiva seppure di vitale importanza. L’agrobiodiversità si riferisce al patrimonio di risorse genetiche vegetali, animali e microbiche, prodotto dal lavoro di generazioni di agricoltori e allevatori che, dall’alba dell’agricoltura, hanno selezionato, domesticato e trasferito specie da diverse zone geografiche per ottenere prodotti utili all’uomo.
La cosiddetta Rivoluzione Verde (1940-1970) ha segnato un’epoca di industrializzazione agricola con incrementi produttivi notevoli, ma a spese di un elevato consumo energetico e di una riduzione della diversità agroalimentare. La biodiversità delle colture è stata particolarmente compromessa: secondo la FAO nel corso del XX secolo abbiamo perso il 75% delle varietà di colture disponibili. Oggi, il sistema agroalimentare mondiale si affida a un numero molto limitato di specie: meno di 200 delle 6000 coltivate per la produzione di cibo contribuiscono significativamente all’approvvigionamento alimentare globale, con solo 9 specie che dominano la produzione (rappresentando il 66% della produzione totale).
La storia ha mostrato gli effetti catastrofici di epidemie su colture geneticamente uniformi, come la carestia della patata in Irlanda nel 1845 o l’epidemia di Bipolaris maydis negli Stati Uniti nel 1970. Esempi recenti in Italia includono il punteruolo rosso della palma (Rhynchophorus ferrugineus), che dal 2005 si è diffuso in Italia soprattutto lungo la linea costiera trovando la sua via tra i filari di palme, o la Xylella fastidiosa che ha infettato ventuno milioni di ulivi pugliesi, coprendo ottomila chilometri quadrati, circa il 40% del territorio regionale. Secondo la FAO, inoltre, molti effetti negativi del cambiamento climatico sulle piante hanno parassiti come intermediari; la presenta di insetti benefici, diminuita dell’80% negli ultimi tre decenni, sta aumentando il rischio di invasioni di insetti dannosi. Un esempio chiaro di quest’ultimo fenomeno sta avvenendo in modo drammatico nell’Africa orientale dove negli ultimi decenni avvengono infestazioni di locuste senza precedenti.
Su scala globale nel breve e lungo periodo, l’agricoltura dovrà aumentare del 60-70% la produzione alimentare per sfamare una popolazione in crescita, prevista a 9,7 miliardi entro il 2050; dovrà farlo nel rispetto delle risorse naturali e della salute dei consumatori, in un contesto in cui la gran parte dei terreni utilizzabili è già coltivato e affrontando i sempre più pressanti temi del degrado ambientale e del cambiamento climatico. In estrema sintesi, l’agricoltura deve aumentare la produzione in modo sostenibile, evitando l’ulteriore conversione di foreste e boschi in terreni coltivati ma concentrandosi sui terreni coltivati attraverso l’intensificazione moderata, l’adattamento e il trasferimento di tecnologie, nei paesi a bassa resa e il miglioramento tecnologico globale nei paesi ad agricoltura avanzata inserendo «più conoscenza per ettaro», traendo vantaggio dai progressi della ricerca.
In questo scenario, l’agrobiodiversità rappresenta un fattore chiave per la sostenibilità e la resilienza dei sistemi agricoli, con contributi quali la diversità genetica per l’adattamento delle colture ai cambiamenti climatici e la resistenza a malattie e parassiti, la diversità delle colture (specie e varietà) per la stabilità delle produzioni e il mantenimento della fertilità dei suoli e la diversità degli agroecosistemi per garantire i servizi ecosistemici e la sicurezza alimentare.
L’agrobiodiversità, infatti, rappresenta una riserva genetica per lo sviluppo di varietà adattate alle sfide future. Le biotecnologie avanzate, note come Tecniche di Evoluzione Assistita (TEA) quali la cisgenesi e il genome editing, offrono metodi per migliorare geneticamente le colture in modo mirato e rapido. Diete variegate, basate su diverse colture, non solo sono più nutrienti, ma sostengono anche la sicurezza alimentare delle comunità locali e la conservazione di sapori e saperi tipici e tradizionali. Le comunità rurali hanno spesso una profonda conoscenza della gestione di razze e varietà locali che è legata allo sviluppo sostenibile dei territori. L’agricoltura sostenibile e biodiversa non solo è vantaggiosa per l’ambiente, ma anche dal punto di vista economico, offrendo opportunità di differenziare il prodotto e di mitigare il rischio associato al mercato dei prodotti di massa.
In definitiva, la sfida è di intensificare l’agricoltura concentrandosi sulla sostenibilità ambientale ed economica, incorporando più conoscenza e tecnologia per ettaro, secondo le indicazioni dell’Unione Europea. La formazione, la didattica, la ricerca e il trasferimento tecnologico giocano un ruolo fondamentale nel realizzare questa forma di intensificazione, puntando a un’avanzata comprensione e applicazione di scienza e tecnologia. Proteggere e valorizzare l’agrobiodiversità è un elemento strategico. Essa consente agli agricoltori di adattarsi ai cambiamenti climatici e di modellare i loro sistemi agricoli in modi sostenibili e resilienti. Il ruolo della politica è determinante nel promuovere pratiche che preservino la biodiversità, attraverso incentivi e interventi strategici. L’adozione di approcci partecipativi può sfruttare la diversità locale per sviluppare sistemi agricoli più robusti. Le accademie, infine, hanno il compito di creare sinergie tra istituzioni, imprese, tecnici e consumatori, nonché di comunicare efficacemente la scienza, ricordando che l’innovazione spesso affonda le radici nella tradizione.

L’articolo su GeorgofiliINFO