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IEA: la produzione di plastica sosterrà la domanda globale di petrolio

Secondo un recente rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia, nei prossimi anni, la produzione di plastica potrebbe sostenere la domanda globale di petrolio. Le emissioni derivanti dal settore petrolchimico aumenteranno del 20% entro il 2030 e del 30% entro il 2050, mettendo a rischio gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, primo fra tutti, quello che punta a contenere l’aumento della temperatura globale entro gli 1,5 °C entro la fine del secolo. Secondo il Club di Roma, l’unica strada possibile è quella dello sviluppo sostenibile. 


Nei prossimi anni, la produzione mondiale di plastica aumenterà e sosterrà la domanda globale di petrolio. A dirlo è l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) in un suo recente rapporto dal titolo The future of Petrochemicals, pubblicato lo scorso 5 ottobre. Negli ultimi decenni, si legge nel rapporto, la maggior parte del petrolio estratto a livello globale è servito per fornire carburante ai trasporti dotati di motori a scoppio. Tuttavia, nei prossimi anni, potrebbe registrarsi un’inversione di tendenza: la domanda di petrolio per i trasporti dovrebbe diminuire entro il 2050 a causa dell’aumento dei veicoli elettrici e di motori a combustione più efficienti, ma ciò sarebbe compensato dall'aumento della domanda di prodotti petrolchimici. La domanda globale, sottolinea la IEA, nel 2017 rappresentava circa il 12% della domanda totale di petrolio, circa 12 milioni di barili di petrolio al giorno, e si prevede che possa salire al 14% nel 2030 e al 16% nel 2050, sfiorando quota 18 milioni di barili al giorno. La crescita della domanda di prodotti petrolchimici si registrerà soprattutto in Cina e nei Paesi mediorientali, dove sono in costruzione grandi impianti industriali. Al contempo, la produzione di plastica, il prodotto petrolchimico più diffuso a livello globale, aumenterà vertiginosamente: del 30% entro il 2030 e del 60% entro il 2050, secondo le stime della IEA. Già oggi, sottolinea il rapporto, la domanda di plastica rappresenta il principale motore dell’industria petrolchimica e, dal 2000 ad oggi, ha superato quella di tutti gli altri materiali sfusi come acciaio, alluminio e cemento.

Nel 2015, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Science Advances, sono state prodotte circa 380 milioni di tonnellate di plastica a livello globale (nel 1950 erano solo 2 milioni di tonnellate). Nel 2050, invece, secondo il rapporto della IEA, si produrranno oltre 1 miliardo di tonnellate di plastica ogni anno e tutto ciò avrà un enorme impatto sull’ambiente. Oltre all’inquinamento da plastica degli oceani e dei mari – la Fondazione Ellen MacArthur sostiene che, di questo passo, nei mari e negli oceani ci sarà più plastica che pesci entro il 2050 (The New Plastics Economy: Rethinking the future of plastics) – ci sarà anche quello dovuto alle emissioni di CO2 derivanti dall’industria petrolchimica, che aumenteranno del 20% entro il 2030 e del 30% entro il 2050.

La crescita della domanda globale di plastica, insieme con l’aumento delle emissioni di CO2, causato dalla crescita dell’industria petrolchimica, metteranno a rischio gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, primo fra tutti, quello che punta a contenere l’aumento della temperatura globale entro gli 1,5 °C entro la fine del secolo. E secondo l’ultimo Special Report dell’Ipcc, l’organismo scientifico delle Nazioni Unite per la ricerca sui cambiamenti climatici, una delle soluzioni necessarie affinché si raggiunga l’obiettivo sarà proprio quella di abbandonare le fonti di energia fossili e intraprendere la strada dello sviluppo sostenibile. A questo proposito, un rapporto pubblicato nei giorni scorsi, in occasione del summit per il cinquantennale del Club di Roma, suggerisce che l’unica strada possibile per evitare la catastrofe climatica nei prossimi anni passa attraverso tre azioni fondamentali: l’eliminazione di tutte le fonti di energia fossili entro il 2050, la fine delle prospezioni per la ricerca di depositi geologici di carbone e dei sussidi a petrolio, carbone e gas e una carbon tax a livello globale.

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Una persona su dieci nel mondo vive in condizioni di povertà estrema

Secondo un recente rapporto della Banca mondiale, dal 1990 al 2015, oltre un miliardo di persone è uscito da una situazione di povertà estrema. Tuttavia, entro il 2030, il 90% di tutti i poveri del mondo potrebbe concentrarsi nella sola Africa subsahariana. La povertà cresce in Occidente: l’Eurostat censisce 118 milioni di persone a rischio povertà in Europa. Stando ai dati attuali, la strada verso l’eliminazione della povertà a livello globale, cioè il primo obiettivo dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, sembra essere ancora lunga. 


“Laddove gli uomini sono condannati a vivere nella miseria, i diritti dell'uomo sono violati. Unirsi per farli rispettare è un dovere sacro”. Queste furono le parole pronunciate da padre Joseph Wresinsky, in occasione di una manifestazione pacifica per dire no alla miseria, organizzata per sua iniziativa il 17 ottobre 1987 a Parigi. La manifestazione si tenne nel piazzale monumentale di Trocadérò e vi parteciparono oltre cento mila attivisti per i diritti umani (Figura in alto). Cinque anni più tardi, nel 1992, l’iniziativa di Wresinsky spinse le Nazioni Unite a riconoscere il 17 ottobre come Giornata mondiale contro la povertà. Dopo la Giornata mondiale dell’alimentazione dedicata alle disuguaglianze alimentari, celebrata il 16 ottobre, il 17 è stata la volta della Giornata mondiale contro la povertà, che ha come principale obiettivo quello di porre l’accento sul tema della povertà, non solo economica, ma in tutte le sue forme. Non è un caso che queste due ricorrenze ricadano ogni anno a distanza di un giorno. Fame e povertà sono due fenomeni strettamente legati: dove non c’è lavoro c’è indigenza, dove c’è carenza di risorse per sopravvivere c’è fame. In altre parole, sono due facce della stessa medaglia.

In occasione della Giornata mondiale contro la povertà, la Banca mondiale ha reso noti i dati relativi alla povertà estrema nel mondo. Secondo il rapporto Povertà e prosperità condivisa 2018, nel 2015, ultimo anno per cui sono disponibili gli ultimi dati, 736 milioni di persone, vale a dire una persona su dieci a livello globale, hanno vissuto in condizioni di povertà estrema, ovvero con meno di 1,90 dollari al giorno (secondo la definizione di “povertà estrema” delle Nazioni Unite). Si tratta della percentuale più bassa che sia mai stata registrata, sottolinea il rapporto, poiché è scesa di un punto percentuale ogni anno dal 1990, quando i poveri estremi erano circa 1,9 miliardi, al 2015. Questo significa che, in 25 anni, oltre un miliardo di persone è uscito da una situazione di povertà estrema. Si tratta di un trend in crescita: per il 2018, le previsioni preliminari della Banca mondiale indicano un’ulteriore riduzione della povertà estrema che, ad oggi, dovrebbe interessare l’8,6% della popolazione mondiale. Il calo della povertà estrema, si legge nel rapporto, è stato dovuto alla vertiginosa crescita economia che ha interessato il continente asiatico negli ultimi vent’anni circa, in particolare Cina e India. Inoltre, se le previsioni si dovessero concretizzare, fa sapere la Banca mondiale, l’obiettivo di ridurre i poveri  estremi al 9% della popolazione globale, fissato dalle Nazioni Unite per il 2020, sarebbe stato raggiunto con due anni di anticipo. Tuttavia, arrivano segnali preoccupanti circa l’aumento della povertà in Africa, soprattutto nella regione subsahariana, dove, stando alle stime, nel 2030, si concentrerà il 90% di tutti i poveri estremi del mondo. Già oggi, sottolinea il rapporto, quest’area del continente africano risulta la più colpita dalla piaga della povertà estrema: tra i Paesi più a rischio, figurano il Togo, in cima alla classifica mondiale per il numero di persone sotto la soglia di indigenza assoluta, il Sierra Leone, il Niger e la Repubblica Democratica del Congo. Per quanto riguarda l’Asia, i Paesi più poveri sono il Bangladesh, l’India e il Nepal, seguiti da Pakistan, Buthan e Sri Lanka. In America Latina, invece, il Paese più povero in assoluto è l’Honduras, seguito da Guatemala e Nicaragua. Questa è la classifica se si tiene conto solamente del reddito giornaliero. Se si prendessero in considerazione altre variabili, la classifica potrebbe essere leggermente differente.

La povertà non interessa solo i Paesi elencati dalla Banca mondiale. Anche in Occidente, sia pure con parametri di riferimento diversi rispetto a quelli usati nei continenti più esposti al fenomeno, la povertà è in forte crescita. In Europa, ad esempio, secondo l’Eurostat (Ufficio Statistico dell’Unione europea), 118 milioni di persone vivono a rischio povertà, cioè quasi un cittadino europeo su quattro. Per quanto riguarda l’Italia, secondo l’Istat, oltre 5 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà e oltre 17 milioni (circa il 30% della popolazione) rischiano di cadervi. Nella classifica dei Paesi europei per livello di povertà, l’Italia si colloca al quinto posto, dopo Bulgaria, Romania, Grecia e Lituania. Dopo la Grecia, l’Italia è il Paese europeo dove il rischio di cadere in povertà è maggiormente aumentato dal 2008 ad oggi, cioè negli anni della crisi economica. Dal rapporto Povertà in attesa, pubblicato dalla Caritas in occasione della Giornata mondiale contro la povertà, emerge inoltre che, dagli anni pre-crisi ad oggi, il numero di poveri è aumentato del 182%. Si tratta di un dato allarmante, fa sapere la Caritas, e in controtendenza rispetto a quello registrato nell’area Ue, dove il rischio di cadere in una situazione di povertà è salito solo dal 2009 al 2012 per poi scendere costantemente fino ad oggi. Stando ai dati attuali, la strada verso l’eliminazione della povertà a livello globale sembra essere ancora lunga. Il primo obiettivo dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che prevede di eliminare la povertà in tutte le sue forme e in ogni parte del mondo, rimane una delle principali sfide dei prossimi anni.  

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Il cambiamento climatico ci porterà via anche la birra

Uno studio della University of East Anglia, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Plants, evidenzia gli effetti del cambiamento climatico sulla coltivazione di orzo, il principale ingrediente per la produzione della birra. Nel peggiore dei casi, sottolinea lo studio, una riduzione nella produzione di orzo potrebbe comportare un calo del 16% del consumo globale di birra.


A causa del cambiamento climatico la birra potrebbe diventare un lusso per pochi. Secondo un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature Plants, l’aumento della temperatura globale, dovuto ai cambiamenti climatici, potrebbe influenzare considerevolmente la coltivazione dell’orzo, il principale ingrediente per la produzione della birra. Lo studio, condotto da un team di ricercatori della University of East Anglia, in Inghilterra, viene diffuso proprio nei giorni in cui l’Ipcc, l’organismo scientifico delle Nazioni Unite per la ricerca sul cambiamento climatico, nel suo ultimo Special Report, ha sottolineato la necessità di agire entro i prossimi 12 anni per salvare il Pianeta dalla catastrofe climatica. All’allarmante monito lanciato dalle Nazioni Unite, si aggiunge ora quello dello studio dell’Università inglese secondo cui, l’aumento della temperatura globale avrà, tra le sue conseguenze, anche quella di limitare il consumo di birra. Lo studio ha preso in esame i possibili effetti che fenomeni climatici estremi, come siccità e ondate di calore, potrebbero avere sulla coltivazione della pianta di orzo in tutti e sei i continenti abitati in un periodo di tempo relativamente lungo, tra il 2010 e il 2099. In particolare, il team di ricercatori ha considerato due possibili scenari futuri con due diversi livelli di emissioni di gas ad effetto serra (Figura 1) e ha simulato le conseguenze di un clima più caldo ed estremo sulla produzione del cereale, utilizzando un software per modellare la crescita e la resa delle colture rispetto alle condizioni meteorologiche. Sulla base dei modelli elaborati, i ricercatori hanno scoperto che un clima estremo, dovuto all’aumento della temperatura globale, potrebbe ridurre la produzione di orzo tra il 3% e il 17%. Alcune aree del globo, come il Centro e il Sud America, potrebbero subire i danni maggiori; altre, come la Cina settentrionale e gli Stati Uniti, potrebbero vedere aumentare i loro raccolti anche del 90%. Per quanto riguarda l’Europa, tra i Paesi più colpiti, ci sarebbero quelli che hanno una secolare tradizione nella produzione di birra come il Belgio, la Repubblica Ceca e l’Irlanda. Nel Paese produttore della famosa "birra scura", nel 2099, il prezzo di una pinta potrebbe aumentare del 43% – 338% (rispetto al prezzo attuale), a seconda della gravità della realtà in cui ci troveremo a vivere. Tra i paesi più a rischio, lo studio annovera anche la Polonia, che rischierà di vendere la birra ad un prezzo quasi quintuplicato, e Germania, Regno Unito e Giappone, dove, a causa del crollo della produzione di orzo, dovuto all’aumento della temperatura, le vendite di birra potrebbe diminuire di quasi un terzo. In Italia, invece, sottolinea lo studio, l’aumento delle temperature potrebbe ridurre la produzione di orzo a tal punto da dover pagare una birra quasi quattro euro in più rispetto al prezzo attuale.

 

Figura 1. Aumento del prezzo medio di una birra a seconda del livello di emissioni di gas ad effetto serra (fonte: Nature)

 

Prendere in considerazione gli effetti che il cambiamento climatico avrà sulla produzione di birra potrebbe sembrare banale. Ma Dabo Guan, economista ed esperto di cambiamenti climatici della University of East Anglia, ritiene che lo studio appena pubblicato possa far capire all’opinione pubblica le vaste implicazioni del cambiamento climatico, in particolare, quelle che avranno considerevoli ricadute sulla nostra vita quotidiana. L’obiettivo dello studio è infatti quello di far riflettere le persone sull’impatto che il cambiamento climatico potrebbe avere sulle produzioni alimentari in generale, prendendo in esame un prodotto di largo consumo come la birra. “Se le persone vorranno ancora bere una birra davanti ad una partita di calcio – ha dichiarato Guan – allora dovranno fare qualcosa” (riporta Nature).