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L’Italia è seconda in Europa per tasso di circolarità dei rifiuti

L’Italia è al secondo posto in Europa, dopo i Paesi Bassi, per tasso di circolarità dei rifiuti. Nel nostro Paese sono attive 25 mila imprese nel riutilizzo e nella riparazione dei prodotti e, con lo sviluppo dell’economia circolare, così come delineato dalle recenti normative europee, si potrebbero creare fino a 50 mila nuovi posti di lavoro. Tuttavia, manca ancora una strategia nazionale dedicata al settore dell’economia circolare. 


Il rapporto del Circular Economy Network

L’Italia è al secondo posto in Europa, dopo i Paesi Bassi, per tasso di circolarità dei rifiuti (il 18,5% contro il 27% dei Paesi Bassi). Nel nostro Paese sono attive 25 mila imprese nel riutilizzo e nella riparazione dei prodotti e, con lo sviluppo dell’economia circolare, così come delineato dalle recenti normative europee, si potrebbero creare fino a 50 mila nuovi posti di lavoro. Di questi, 23 mila nell’ambito della gestione dei rifiuti, 16 mila nelle imprese che operano nel campo della riparazione e 11 mila nel settore della bioeconomia. Questo è quanto emerge dal rapporto “Potenzialità e ostacoli per l’economia circolare in Italia”, presentato lo scorso 22 novembre a Roma, presso il Senato della Repubblica (Figura 1). Il rapporto è stato pubblicato dal Circular Economy Network, think tank promosso dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile insieme con una rete di 13 imprese che operano nel settore dell’economia circolare.

 

Figura 1. Presentazione del rapporto “Potenzialità e ostacoli per l’economia circolare in Italia” presso l’Aula Capitolare del Senato della Repubblica, Roma (foto: Andrea Campiotti)

 

Il rapporto offre una visione congiunta sulle potenzialità dell’economia circolare per i diversi settori economici del nostro Paese e sulla necessità di adeguarsi a nuovi target fissati dall’Unione europea. Secondo alcuni studi del Parlamento europeo, indicati nel rapporto, politiche mirate al prolungamento della durata dei beni potrebbero garantire maggiore occupazione e un fatturato più elevato nei settori della conservazione, riparazione e affitto e compravendita dei prodotti. Un incremento dell’1% di queste attività, si legge nel rapporto, potrebbe generare un mercato aggiuntivo di 7,9 miliardi di euro all’anno a livello europeo, di cui quasi 1,2 miliardi in Italia. Anche il settore della bioeconomia potrebbe avere un forte sviluppo. Da qui al 2020, si prevede una crescita di 40 miliardi di euro all’anno e un’occupazione aggiuntiva di 90 mila nuovi posti di lavoro a livello europeo. “La strategia europea sull’economia circolare pone l’accento sulla necessità di sviluppare il settore della bioeconomia rigenerativa”, ha dichiarato Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile. “Occorre una strategia integrata e coordinata per lo sviluppo delle varie filiere della bioeconomia. Sarebbe utile istituire un’Autorità dedicata al monitoraggio e ai controlli nel settore dell’economia circolare”, ha aggiunto Ronchi.

Nel corso della presentazione del rapporto sono stati enunciati i cosiddetti “nodi” del pacchetto sull’economia circolare, approvato dal Parlamento europeo lo scorso aprile, tra i quali: la necessità di rendere concrete ed efficaci le misure contenute nel pacchetto per ridurre la produzione dei rifiuti; adottare misure per raggiungere i target europei previsti per il riciclo dei rifiuti; adeguare con urgenza la normativa sulla cessazione della qualifica di rifiuto, approvando i decreti End of Waste; migliorare la riciclabilità dei prodotti e sviluppare il mercato delle materie prime seconde e dei beni riciclati; difendere e rafforzare i consorzi italiani dei rifiuti; cominciare ad adottare le misure contenute nella recente Strategia europea per la plastica, varata dalla Commissione europea lo scorso gennaio. Secondo la Ellen MacArthur Foundation, la transizione ad un’economia circolare potrebbe comportare un risparmio netto annuo di 640 milioni di euro sul costo di approvvigionamento di materiali per il sistema manifatturiero europeo. “L’Italia ha in questo campo la possibilità di conquistare un ruolo centrale in una partita strategica per tutta l’Unione europea”, ha dichiarato Luca dal Fabbro, vicepresidente del Circular Economy Network. “Dobbiamo far fare un salto di qualità al nostro sistema produttivo”, ha aggiunto Simona Bonafè, eurodeputata relatrice del pacchetto europeo sull’economia circolare.

 

Le migliori startup italiane dell’economia circolare

Nel corso del convegno sono state presentate le tre aziende vincitrici del Premio nazionale “Startup dell’economia circolare 2018”, organizzato dal Circular Economy Network. Le tre aziende che sono salite sul podio dei vincitori sono: Rubber Conversion, che ha ideato un processo chimico e un impianto  che permettono il riciclo di qualsiasi mescola di gomma usata nell’industria degli pneumatici e dei prodotti tecnici; Agrobiom che ha prodotto un biospray pacciamante da scarti agroindustriali alternativo all’uso delle plastiche; Specialised Polymers Industry che ha messo a punto un metodo per il recupero dei fanghi di cartiera generalmente destinati allo smaltimento in discarica.

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Gli obiettivi europei su rinnovabili ed efficienza energetica diventano vincolanti

Lo scorso 13 novembre il Parlamento europeo ha approvato 4 degli 8 obiettivi contenuti nel pacchetto normativo “Clean energy for all europeans”, varato dalla Commissione europea a novembre 2016. Resi vincolanti gli obiettivi in materia di energia rinnovabili, efficienza energetica, biocarburanti e governance energetica dell’Unione. Introdotta anche la possibilità, per i cittadini degli Stati membri dell’Ue, di produrre, consumare, immagazzinare e vendere energia ottenuta attraverso fonti rinnovabili. 


Cosa prevedono i nuovi obiettivi

L’Unione europea ha reso vincolanti gli obiettivi in materia di energie rinnovabili, efficienza energetica, biocarburanti e governance energetica dell’Unione. Il nuovo quadro normativo prevede di portare le energie rinnovabili a coprire il 32% del consumo energetico lordo dell’Ue, migliorare l’efficienza energetica del 32,5% e introdurre nuove regole per una governance energetica comune. I nuovi obiettivi, il cui raggiungimento è previsto per il 2030, dovranno essere rivisti entro il 2023 e potranno essere solo innalzati e non abbassati. Le nuove norme, appena approvate dal Parlamento europeo, rappresentano il consolidamento di alcune misure contenute nel pacchetto normativo “Clean energy for all europeans, varato dalla Commissione europea a novembre del 2016. Il pacchetto, sul quale Consiglio, Commissione e Parlamento avevano raggiunto un accordo lo scorso giugno, puntava a rendere il settore energetico dell’area Ue più stabile, competitivo e sostenibile, attraverso la mobilitazione di investimenti pubblici e privati nel settore delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica. Questi investimenti, secondo le stime riportate nel pacchetto, avrebbero dovuto  portare alle creazione di 900 mila posti di lavoro e all’aumento di un punto percentuale di PIL nel giro di dieci anni. Quattro delle otto proposte del pacchetto “Clean energy for all europeans” sono state ora pienamente approvate dal Parlamento europeo e, una volta attuate, ha fatto sapere il vicepresidente della Commissione europea e responsabile per l’Unione energetica Maroš Šefčovič, dovrebbero portare ad una riduzione delle emissioni di CO2 di circa il 45% entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990).

Tra i settori interessati dalla nuova normativa c’è anche quello dei biocarburanti. Entro il 2030, almeno il 14% dei carburanti utilizzati nel settore dei trasporti dovrà essere prodotto attraverso fonti di energia rinnovabili e, a partire dal 2019, il contributo di quelli con un elevato rischio di “cambiamento indiretto di destinazione dei terreni” dovrà essere progressivamente eliminato fino a raggiungere quota zero entro il 2030. La nuova normativa pone poi l’accento sulla necessità di attuare una governance energetica dell’Unione europea. Le nuove norme prevedono, infatti, che ogni Stato membro debba presentare un “piano nazionale integrato per l’energia e il clima” con obiettivi, contributi, politiche e misure nazionali decennali. I primi piani nazionali dovranno essere presentati entro il 31 dicembre 2019 e successivamente ogni dieci anni.

 

Al via le “comunità energetiche”

La nuova normativa introduce anche la possibilità, da parte dei cittadini degli Stati membri dell’Ue, di produrre, consumare, immagazzinare e vendere energia ottenuta attraverso fonti rinnovabili. Quest’ultimo punto potrebbe portare ad una vera e propria rivoluzione del settore energetico. Grazie alla nuova normativa, infatti, un gruppo composito di soggetti (aziende, enti pubblici e privati o anche singoli cittadini) potrebbe decidere di produrre energia da fonti rinnovabili, di utilizzarla per soddisfare in autonomia i propri consumi e vendere la produzione in eccesso ad altri soggetti. In questo modo, si verrebbero a formare delle “comunità energetiche” che, nei Paesi del Nord Europa, sono già una realtà. Anche in Italia, però, sono state avviate sperimentazioni di questo tipo. Il Consiglio regionale del Piemonte, ad esempio, con legge regionale n. 12 del 3 agosto 2018, ha stabilito che i Comuni possono proporre la costituzione di una comunità energetica, oppure aderire ad una già esistente, grazie ad una serie di incentivi ad hoc previsti dalla normativa.  

 

Prossimi passi

Dopo l’approvazione della nuova normativa da parte del Parlamento europeo, la palla passa ora al Consiglio, il quale dovrà formalmente adottare l’accordo. In seguito all’approvazione da parte del Consiglio, la nuova normativa sarà pubblicata in Gazzetta ufficiale ed entrerà in vigore venti giorni dopo la sua pubblicazione. Gli Stati membri dell’Ue dovranno recepire la normativa nella legislazione nazionale entro 18 mesi dalla sua entrata in vigore.

L’agricoltura urbana per città più resilienti e sostenibili

Nel 2025 oltre la metà della popolazione mondiale vivrà nelle città. La vertiginosa crescita demografica comporterà un’urbanizzazione senza precedenti, con enormi conseguenze in termini ambientali e di approvvigionamento alimentare. Da alcuni anni a questa parte, la FAO ha individuato nell’agricoltura urbana una "via d’uscita alla povertà alimentare", soprattutto nei Paesi in via di sviluppo dove, nei prossimi anni, stando alle stime, si concentrerà buona parte della popolazione mondiale.


Una vertiginosa crescita demografica

Secondo le stime delle principali Agenzie internazionali (UNP, FAO, OECD), nel 2025, oltre il 50% degli 8 miliardi di persone (previsti) che abiteranno il pianeta, vivrà in aree urbane. I tassi di urbanizzazione più elevati interesseranno le città dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa. Stando alle stime, entro il 2025, il mondo assisterà ad un boom senza precedenti di “megacittà”, cioè città con oltre 10 milioni di abitanti: Pechino avrà una popolazione di 23 milioni di abitanti, Tokyo di 37 milioni, Manila (Filippine) arriverà a 16, New Delhi (India) supererà i 28, New York – Newark sfiorerà i 21, Città del Messico, che già oggi rappresenta il principale agglomerato urbano del mondo, arriverà 25, mentre Dhaka (Bangladesh) quasi a 21 (Figura 1).

 

Figura 1. Le città con una popolazione di oltre 10 milioni di abitanti nel 2010 e le stime di crescita demografica al 2025 (fonte: Nazioni Unite, 2018)

 

L’agricoltura urbana può essere la soluzione

Da alcuni anni a questa parte, la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) ha individuato una "via d’uscita alla povertà alimentare" nell’agricoltura urbana, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo dove, nei prossimi anni, stando alle stime, si concentrerà buona parte della popolazione mondiale. La crescita demografica comporterà un’urbanizzazione senza precedenti, con enormi conseguenze in termini ambientali e di approvvigionamento alimentare. Nelle città dei Paesi in via di sviluppo, l’agricoltura urbana potrebbe rappresentare una soluzione alla povertà, non solo alimentare, ma anche economica e sociale. Essa avrebbe tutte le potenzialità per garantire l’accesso sicuro al cibo alle famiglie povere e a basso reddito e rispondere alle necessità alimentari di anziani, donne e bambini. Il fenomeno dell’agricoltura urbana non si sta diffondendo solo nelle città dei Paesi in via di sviluppo. Anche nei Paesi cosiddetti "occidentali", la sicurezza alimentare rappresenta una prerogativa e l’agricoltura urbana ha trovato l’interesse da parte delle amministrazioni locali, delle associazioni e dei cittadini. A Montreal (Quebec), ad esempio, il 44% dei cittadini è coinvolto nella produzione di cibo nei parchi municipali, nei terreni privati, nei cortili, nei balconi, nei tetti o in uno dei tanti orti comunitari realizzati dall’amministrazione locale. Negli Stati Uniti, invece, dove, stando alle stime, almeno 30 milioni di persone non possono permettersi l’acquisto di una quantità di cibo sufficiente al loro fabbisogno alimentare, l’agricoltura urbana, nelle città dove viene praticata, ha dei risvolti di carattere sociale: essa contribuisce, infatti, a migliorare la dieta alimentare delle classi più povere, spesso iperproteica, povera di vitamine e fibre e basata, nella generalità dei casi, sui cosiddetti "cibi spazzatura" (junk foods).

 

Il caso di Detroit, negli Stati Uniti

Un esempio virtuoso di come l’agricoltura urbana possa trasformare una città industriale in una città verde è quello offerto da Detroit, capoluogo della contea di Wayne, nello Stato del Michigan (Stati Uniti). Conosciuta per decenni come la capitale americana dell’industria e dell’auto, dopo la crisi automobilistica che ha portato alla chiusura degli stabilimenti delle tre principali aziende che operavano in città, cioè Ford, Chrysler e General Motors, ha subito un calo del 40% della popolazione e accumulato un debito di oltre 20 miliardi di dollari. A Detroit era diventato persino impossibile trovare prodotti alimentari freschi. Oggi, grazie all’avvio di progetti di agricoltura urbana e messa a verde degli stabilimenti industriali abbandonati, Detroit si sta miracolosamente rigenerando. Dal 2000 ad oggi, gli orti urbani (Figura 2) hanno contribuito alla produzione annuale di centinaia di tonnellate di prodotti vegetali freschi per le famiglie, per i ristoranti e i locali della città, portando Detroit ad essere considerata ormai la capitale della rivoluzione verde americana.

 

Figura 2. Agricoltura urbana a Detroit, negli Stati Uniti (foto: Detroit Metro Times)

 

I molteplici benefici dell’agricoltura urbana

L’agricoltura urbana non rappresenta solo un modello di “filiera corta” (a km 0), ma contribuisce anche al miglioramento del clima urbano e, di conseguenza, al benessere dei cittadini. Le piante, grazie all’energia solare e ai sali minerali fornitegli dall’acqua e dal suolo, trasformano la CO2 in ossigeno per l’ambiente e in zuccheri e amidi necessari per la loro stessa vita (fotosintesi clorofilliana). E i benefici non sono solo dal punto di vista ambientale, ma anche sociale ed economico. In Italia, l’agricoltura urbana è un fenomeno in rapida crescita. Secondo le valutazioni della Coldiretti, condotte sui dati del rapporto dell’Istat Ambiente Urbano 2017, le aree verdi destinate alla realizzazione di orti pubblici, nelle città capoluogo, si estendono per quasi 2 milioni di metri quadrati. Insomma, l’agricoltura urbana rappresenta ormai una realtà consolidata a livello globale. Essa rappresenta uno strumento efficace contro la povertà e lo scarso accesso al cibo, oltreché una strategia di sviluppo sostenibile e di tutela ambientale a disposizione delle amministrazioni locali. L’agricoltura urbana contribuisce inoltre a migliorare il comfort estetico delle città e a creare servizi di inclusione per le persone affette da difficoltà fisiche e psichiche. Essa rappresenta poi un’ottima soluzione contro lo stress che colpisce buona parte della popolazione nelle grandi città del mondo e uno strumento didattico per l’educazione delle nuove generazioni. Data la sua multifunzionalità, l’agricoltura urbana può essere considerata una soluzione efficace per migliorare la resilienza, la sostenibilità, la biodiversità e la qualità della vita delle città.