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Il kiwi di IV gamma si può migliorare

Due studi, uno italiano e uno spagnolo, propongono alcune novità nella commercializzazione del kiwi di IV gamma. La lavorazione di IV gamma del kiwi rappresenta infatti un’ottima soluzione per recuperare quasi il 25% della produzione che a causa di forma o pezzatura non adeguate, non può essere destinata al mercato della frutta fresca di I gamma.

La ricerca italiana portata avanti dall’Università di Pisa e pubblicata su “PubMed”, rivista del US National Library of Medicine, mette in evidenza come l’esposizione alla luce solare diretta durante la coltivazione potrebbe influenzare la shelf-life e quindi la qualità nutrizionale del frutto sia intero sia lavorato per la IV gamma.
Lo studio ha analizzato i kiwi cresciuti in pieno sole e in zone parzialmente ombreggiate, come quelli presenti all’interno della chioma. I frutti raccolti sono stati prima conservati interi per 75 giorni in cella frigorifera a 0°C, quindi conservati per 3 giorni a 4°C, ma in questo caso alcuni frutti erano interi, mentre altri erano già tagliati a fettine. Su tutti i campioni si sono effettuate le seguenti analisi:

  • consistenza della polpa,
  • contenuto in solidi solubili totali
  • contenuto in ascorbato,
  • contenuto in flavonoidi,
  • contenuto in fenoli,
  • attività enzimatica di poligalatturonasi (PG),
  • attività enzimatica di pectinmetilesterasi (PME),
  • quantità di enzimi responsabili del rammollimento del frutto.

I risultati della ricerca hanno evidenziato che la consistenza della polpa e il contenuto in solidi solubili totali erano superiori nei frutti cresciuti in pieno sole, e tali parametri sono rimasti inalterati anche dopo la conservazione a 4°C.
Il contenuto in ascorbato, flavonoidi e fenoli è risultato inizialmente superiore nei frutti interi cresciuti in pieno sole, ma dopo il taglio la loro concentrazione è nettamente diminuita tanto da diventare minore rispetto a quella presente nei frutti cresciuti parzialmente ombreggiati. L’attività enzimatica di PG e PME è risultata superiore nei frutti interi cresciuti parzialmente ombreggiati, con nessuna variazione di rilievo dopo il taglio e la conservazione a 4°C.
Da questi risultati emerge, pertanto, che i frutti cresciuti al sole sono più adatti per il mercato fresco di I gamma, mentre i frutti cresciuti parzialmente all’ombra sono più idonei per il mercato fresco di IV gamma.

Ricercatori dell’Università Politecnica de Catalunya BarcelonaTech (Spagna) hanno da poco pubblicato su “Science Direct” i risultati della loro ricerca sull’impiego di rivestimenti commestibili (edible coating) sul kiwi Hayward di IV gamma. La ricerca di tipo comparativo, ha confrontato l’efficacia dei seguenti rivestimenti:

  • aloe vera;
  • chitosano formulato con acido acetico (-AC);
  • chitosano formulato con acido citrico (-C);
  • alginato di sodio.

Il chitosano-AC e l’alginato vengono impiegati date le loro capacità inibenti verso lo sviluppo di gas, quali CO2.

I kiwi interi sono stati lavati e disinfettati con acqua clorata, quindi pelati e tagliati a fette uniformi di 6 mm. Le fette sono state quindi immerse nelle diverse soluzioni per il rivestimento e poi confezionate in vaschetta. Tutte le vaschette sono state conservate a 4°C per 12 giorni e sono state controllate periodicamente.
I parametri controllati sono stati i seguenti:

  • pH,
  • contenuto in solidi solubili,
  • acidità titolabile,
  • acido ascorbico,
  • colore,
  • consistenza,
  • concentrazione di gas all’interno della vaschetta,
  • contenuto in pectine,
  • carica microbica,
  • qualità sensoriale.

I parametri misurati all’inizio della lavorazione sono stati presi come riferimento.
Dalle analisi è emerso che nelle vaschette con il kiwi ricoperto di:

  • alginato e con chitosano-C: c’è stato un picco di produzione di CO2 dopo solo 8 giorni di conservazione;
  • Aloe vera: si è preservata la consistenza delle fette anche dopo 11 giorni, non ci sono state perdite rilevanti di acido ascorbico e è stato evitato l’ingiallimento dovuto alla maturazione;
  • Aloe vera e chitosano-AC: si è limitata la proliferazione microbica ma il gusto ha subito delle modificazioni non gradevoli;
  • alginato: si è registrata una carica microbica superiore a quella delle fette di controllo.

Visti i risultati della ricerca, i ricercatori hanno concluso che il rivestimento migliore è quello costituito da Aloe vera al 5%.

Per saperne di più
PubMed
ScienceDirect

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La dieta mediterranea allunga la vita

A dicembre di quest’anno, la rivista “British Medical Journal” ha pubblicato uno studio statunitense sulla correlazione tra la dieta mediterranea e la longevità. Lo studio, svolto negli Stati Uniti, ha coinvolto 4.676 donne lavoranti presso l’ospedale “Brigham and Women’s Hospital” e la scuola “Harvard Medical School” a Boston.

Dalle ricerche effettuate è emersa una correlazione tra la maggiore lunghezza dei telomeri e un’alimentazione di tipo mediterraneo.
La dieta mediterranea è già nota per i suoi effetti benefici sulla salute, tra cui la diminuzione del rischio di malattie croniche, come quelle cardiache, e del cancro. Questo studio, invece, mette per la prima volta la dieta mediterranea in relazione con la longevità.
Le caratteristiche principali della dieta mediterranea sono date dalla presenza di:

  • alti quantitativi di: frutta, verdura, frutta secca a guscio, legumi, cereali, olio d’oliva
  • medi quantitativi di pesce
  • bassi quantitativi di: lipidi insaturi, formaggi, carne e pollame.

Il bioindicatore della longevità è rappresentato dalla lunghezza dei telomeri.
I telomeri sono sequenze ripetive di DNA che si trovano alla fine dei cromosomi eucariotici. I telomeri sono sottoposti ad attrito ogni volta che la cellula somatica si divide. La funzione dei telomeri è quella di prevenire la perdita di DNA genomico presente alla fine dei cromosomi lineari durante la divisione cellulare, proteggendone così l’integrità. Vista la naturale diminuzione della lunghezza dei telomeri con l’età, questo parametro si presta ad essere considerato come biomarcatore dell’invecchiamento. Pertanto, telomeri corti vengono associati ad una minore aspettativa di vita e un aumento nella probabilità di sviluppare malattie croniche collegabili all’età.
Studi precedenti hanno evidenziato come la velocità di accorciamento del telomero non dipenda solo dall’età anagrafica, ma esistano altri fattori che possono contribuire ad accelerarne o rallentarne l’usura. Ciascun individuo, infatti, presenta un personale stato di usura. Esiste, quindi, la possibilità di modificare la velocità di usura dei telomeri: fattori come obesità, fumo di sigaretta, e consumo di bevande zuccherate sono già stati collegati alla presenza di telomeri più corti, quindi a situazioni di usura più marcata.
I ricercatori hanno quindi analizzato e cercato una correlazione tra la lunghezza dei telomeri e gli stili di vita nonché la tipologia di alimentazione.
Tra tutte le diete, i ricercatori hanno dato priorità a quella mediterranea in quanto ricca di frutta, verdura e noci, fattori già noti per il loro potere antiossidante e anti-infiammatorio.

Lo studio si è svolto su donne di mezza età e in buona salute. Oltre alle analisi cromosomiche, si sono raccolti i dati realativi alle abitudini e stili di vita e al tipo di alimentazione. Per la raccolta di questi dati i ricercatori si sono avvalsi di questionari opportunamente compilati dalle persone oggetto dello studio.
Dai risultati raccolti si è visto che più la dieta era di tipo strettamente mediterraneo, maggiore risultava la lunghezza dei telomeri. In particolare si è visto che la dieta pesava molto di più di tutti gli altri fattori sulla lunghezza dei telomeri. Si sono quindi analizzate altre diete salutiste, ma nessuna ha evidenziato effetti così evidenti come la dieta mediterranea.

Per saperne di più:

British Medical Journal

La biodiversità come misura per la resa futura del terreno

La biodiversità sta risultando un parametro molto importante nella lotta integrata in quanto si mette l’ambiente in condizioni di svolgere da solo il compito che altrimenti è necessario adempiere impiegando sostanze di sintesi non sostenibili a lungo termine. Un ambiente con poca biodiversità dà, in un certo senso, la misura di quanto il terreno sia sfruttato e quindi quanto la sua fertilità sia limitata nel tempo. In un articolo apparso di recente su Science Direct alcuni ricercatori europei hanno illustrato come misurare la biodiversità, e avere quindi un’idea sulla sostenibilità futura del proprio terreno. La ricerca è stata in parte condotta all’interno del progetto europeo “BioBio Project”.

Questo studio ha messo a punto un metodo di misurazione che può risultare molto utile soprattutto ai consulenti nel settore agricolo. Tradurre il concetto di biodiversità in numeri facilita sia la comprensione sia la valutazione da parte degli agricoltori stessi.

Le sperimentazioni sono state effettuate in 19 aziende agricole in Svizzera. Le aziende sono state mappate per quantità e qualità di animali, piante e pratiche agricole ecc. Da questi risultati sono stati identificati due parametri fondamentali che possono identificare la biodiversità:

  • ricchezza media (numero di specie presenti in ogni azienda agricola);
  • unicità dell’azienda (il contributo di ogni singola azienda alla ricchezza totale delle specie).

Queste due misurazioni riflettono due parametri diversi ma complementari sulla presenza di biodiversità: la quantità e la qualità.

Per la definizione dei valori, i ricercatori hanno definito uguale a 100 il valore ottenuto dalla media matematica di tutti i valori raccolti nelle 19 aziende. Pertanto un risultato sopra al 100 indica un’azienda sopra alla media, un risultato sotto il 100 indica un’azienda con biodiversità sotto alla media. L’organizzazione dei risultati in questo modo permette di fornire all’agricoltore una visione della propria posizione rispetto alle aziende vicine.
Dall’analisi dei risultati è emerso che tutte le aziende potevano essere raggruppate in tre categorie:

  • aziende con ricchezza nella media ma bassa unicità
  • aziende con unicità e ricchezza nella media
  • aziende con ricchezza e unicità sopra la media.

Questa suddivisione permette di fornire agli agricoltori consigli maggiormente adeguati e specifici per ogni singola realtà.
Infatti, in casi in cui l’indice ha mostrato una buona ricchezza di biodiversità, ma una scarsa unicità, si è vista una generale limitazione nel numero di tipi diversi di habitat presenti.
Un altro caso, invece, ha portato dei valori di unicità fuori dalla norma soprattutto per il quantitativo di api. Un’analisi del territorio ha evidenziato la presenza di prato molto ripido e isolato che è risultato estremamente attraente per le api e altri insetti impollinatori che nidificano nel terreno.

La possibilità di avere delle misurazioni e delle valutazioni chiare rende possibile agli agricoltori di vedere i punti di forza e le debolezze della propria azienda e quindi lo aiuta nel prendere delle decisioni. Inoltre, questo sistema dovrebbe stimolare la discussione e lo scambio di informazioni tra gli agricoltori.

Per saperne di più:

EIP-AGRI
Science Direct
BioBio Project