Millenials

Mangio, dunque sono. I Millennials innovano le regole del Food System

È in atto una vera e propria rivoluzione del sistema agroalimentare in virtù della quale rete e tecnologie stanno trasformando radicalmente le nostre abitudini alimentari. Protagonisti di questo nuovo scenario socio-economico e culturale sono i Millennials. Comprano bio, prediligono i prodotti di origine vegetale alla carne e sono più attenti dei loro genitori e nonni alla qualità del cibo e alle sue modalità di produzione, trattamento e distribuzione.


È in atto una vera e propria rivoluzione del sistema agroalimentare in virtù della quale rete e tecnologie stanno trasformando radicalmente le nostre abitudini alimentari. Protagonisti di questo nuovo scenario socio-economico e culturale sono i Millennials. Il termine Millennials fu coniato dagli scrittori statunitensi William Strauss e Neil Howe nel 2000 nel loro libro “Millenials Rising: The Next Great Generation”, e identifica quella generazione di giovani nati tra i primi anni ’80 e gli anni 2000, chiamati anche “nativi digitali” perché cresciuti in una realtà caratterizzata dall’uso massiccio di strumenti digitali (Figura 1). Entro il 2020  i Millennials saranno il 25% della popolazione di Europa e Stati Uniti (Fondazione Deloitte).

 

Dati aggregati sulle generazioni in USA ed Europa (Germania, Francia, Italia, Spagna, UK), 2014

Figura 1. Generation Z ,i giovani nati dal 2001; Millennials: i giovani nati nel periodo 1980-2000; Generation X: la fascia di persone nate dal 1960 al 1979; i Baby Boomers: gli ex-giovani nati nel periodo 1946-1959. Source: Eurostat/USA, Census Bureau/Fung Global Retail &Technology. 3

 

Il focus su questa generazione ci mostra giovani con caratteristiche completamente differenti dai loro genitori, infatti i  Millennials rappresentano una fascia sociale che ama il benessere individuale e che mette ai primi posti salute, tempo libero e felicità e soltanto in ultima posizione il desiderio di arricchirsi attraverso la carriera lavorativa. Una recente indagine (REF Ricerche su dati Istat) ci mostra che in Italia i giovani tra i 16 e i 34 anni sono presenti soprattutto al Nord e al Sud rispetto al Centro, con una leggera prevalenza delle donne rispetto agli uomini (Figura 2). 

 

Figura 2. Dove vivono i Millennials in Italia? (Fonte: REF Ricerche su dati Istat)

 

Millennials sono poco dediti alla politica ma non sono contrari alla globalizzazione, anzi considerano naturale muoversi liberamente tra i vari Stati europei, grazie anche alle opportunità di studio offerte dal programma europeo Erasmus. Secondo la Commissione Europea, a partire dal 1987, anno di nascita del programma europeo di mobilità per gli studenti, più di 4 milioni di ragazzi/e europei hanno studiato in un altro paese e tra questi uno su dieci è italiano. In generale, il 6% dei giovani di età compresa tra 18 e 34 anni sono stati sinora coinvolti dal programma Erasmus. I  Millennials sono aperti alle contaminazioni e al confronto tra culture diverse, sono una generazione abituata a relazionarsi con strumenti digitali, primo fra tutti lo smartphone, che rappresentano anche il principale mezzo attraverso cui accedono a una varietà infinita di servizi, contenuti e informazioni. Numerose indagini ci dicono che i  Millennials sono avidi fruitori della rete e dei social network: il 76% di loro è abitualmente connesso tramite smartphone sui social network per inviare messaggi, vedere video virali e per ascoltare musica. Tuttavia le tendenze digitali di questi giovani non devono far pensare che siano dediti soltanto al divertimento, privi di interessi culturali e costantemente connessi alla rete. Al contrario, i  Millennials rappresentano una fascia sociale che più di ogni altra fascia del passato mostra attenzione e rispetto per i problemi ambientali e per i consumi di energia tradizionale. Infatti, tra questi giovani è molto diffusa la pratica della differenziazione dei rifiuti in casa oltre ad una maggior attenzione al consumo e allo spreco di acqua ed energia elettrica per le faccende domestiche (dati Nielsen, 2015). Nei confronti del cibo, i Millennials rappresentano una categoria di consumatori molto attenta alla qualità dei prodotti e alla sostenibilità dei processi produttivi che caratterizzano gli alimenti. Rispetto alle generazioni precedenti, spendono di più in cibo – la spesa annua negli USA è di circa 1000 miliardi di dollari – ma sono anche più informati su ciò che mangiano – l’80% di loro vuole conoscere la provenienza e la tracciabilità del cibo che mangia (Seeds & Chips, 2017). Secondo LegaCoop un quinto dei  Millennials italiani comprano esclusivamente prodotti biologici con preferenza per i prodotti a km zero e privi di OGM (Organismi Geneticamente Modificati) e spesso anche privi di glutine (gluten-free). 

 

    

Figura 3. Prodotti biologici in vendita (foto: Andrea Campiotti)

 

È  significativo che nel 2015 il mercato bio ha toccato quota 30 miliardi di euro (UE a 27,1 mld) con un incremento del 13%. La Germania è il mercato bio più importante in Europa (8,6 mld di euro), seguito da Francia (5,5 mld), Regno Unito (2,6 mld) e Italia (2,3 mld). Sempre in Italia, dove il cibo rappresenta un valore identitario, il 53,5% dei Millennials sul tema cibo si dichiara appassionato, il 28,3% intenditore e l’11,1% vero esperto (CENSIS, 2014). Un’altra tendenza tipica dei  Millennials è quella di preferire prodotti vegetali alla carne (in Italia le persone che hanno scelto un’alimentazione priva di carne e derivati sono oltre il 7% della popolazione). Per rendere l’idea dell’importanza che i Millennials ricoprono in Italia per le imprese che operano nell’industria del cibo, è opportuno citare i seguenti dati: 8,7 milioni di giovani mangiano piatti tipici di altri paesi europei (paella, crepes, ecc.), di cui 1,9 milioni regolarmente; 7,7 milioni mangiano piatti etnici (guacamole, cous cous), di cui 1,8 milioni abitualmente; 10 milioni consumano (di cui 3,3 milioni regolarmente) piatti preparati secondo ricette nuove di cui hanno sentito parlare in tv e/o letto su riviste e/o su ricettari (dati Censis, 2014).

I  Millennials sono inoltre appassionati del vino di cui rappresentano oggi il 34% dei consumatori a livello mondiale. In particolare, i Millennials statunitensi rappresentano la generazione che in quantità beve più vino di qualsiasi altra, con il 42% di tutti i consumi a differenza del nostro Paese dove il vino risulta essere preferito dalla Generazione X (i nati tra il 1965 e il 1980). Una recente ricerca del Nomisma, presentata in occasione del Vinitaly di Verona 2017, mostra che i giovani statunitensi nella scelta del vino guardano soprattutto alla notorietà del brand (32%) a scapito del tipo di vino (21%). Al contrario, il primo criterio di scelta dei giovani italiani è la tipologia del vino (51%), mentre la notorietà del brand risulta essere marginale (10%). Un altro food trend dei Millennials è il cosiddetto pranzo on the go, in pratica “mangio in strada”. Una ricerca Nielsen rivela che l’11% dei giovani passa la propria pausa pranzo per strada e il 28% di loro dichiara di amare il mondo dello street food.

Secondo una recente ricerca condotta dalla Cargill, una delle più grandi multinazionali al mondo del settore alimentare, i  Millennials hanno ormai dato avvio ad una nuova cultura del cibo fondata su tre aspetti principali: convenienza, varietà di scelta e trasparenza. Convenienza perché l’abitudine ad acquistare cibi pronti e take away, dovuto al poco tempo disponibile per fare la spesa, porta questi giovani ad acquistare alimenti soprattutto presso la Grande Distribuzione Organizzata (GDO) che mette a loro disposizione un ampio ventaglio di piatti pronti a prezzi sempre più competitivi. I  Millennials amano scegliere tra i numerosi prodotti della GDO e inoltre amano la trasparenza; infatti leggono le etichette dei prodotti perché vogliono essere informati sui cibi che acquistano, sono più sensibili e più attenti dei loro genitori e dei loro nonni alla qualità del cibo e alle sue modalità di produzione, trattamento e distribuzione. Per i  Millennials il cibo deve essere buono sia nel gusto che nella sua storia perché il cibo oltre che identitario è anche sinonimo di salute e quindi alla formula cartesiana “Penso, dunque sono” i Millennials preferiscono “Mangio, dunque sono”.

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EARTH DAY. Per la maggioranza degli imprenditori italiani il 2017 è l’anno della svolta green

Da uno studio promosso da Conlegno in occasione dell’Earth Day che si celebra ogni anno il 22 aprile sin da l 1970 in tutto il mondo, risulta che per la maggioranza degli imprenditori questo è l’anno della svolta green. L’indagine ha coinvolto 150 imprenditori, selezionati a campione dalle principali città italiane, e 70 testate internazionali che hanno analizzato il tema dell’impegno imprenditoriale in campo ecologico.

Oltre 7 imprenditori su 10 (72%) hanno affermato di avere già messo in atto, o hanno intenzione di farlo, una serie di politiche e azioni concretamente ecosostenibili in azienda, dai vertici fino ai dipendenti. Dalle scelte più complesse, come gli investimenti nell’innovazione dei macchinari (44%) e l’installazione di pannelli solari per generare energia pulita (37%), alle più semplici, come la raccolta differenziata in ufficio (51%) e l’abbassamento dei termosifoni (45%).

Ma quali sono i comportamenti green che gli imprenditori italiani stanno per mettere in atto? Al primo posto si pone l’obbligo in azienda di fare la raccolta differenziata (51%), oramai sdoganata nelle aree metropolitane di tutta Italia. Sul secondo gradino del podio invece tutti quegli accorgimenti che permettono di ridurre l’impiego d’energia, come abbassare i termosifoni o chiudere porte e finestre se è attivato il condizionamento dell’aria (45%). Medaglia di bronzo invece per gli investimenti in macchinari e strumentazioni con classe energetica A o a minor impatto inquinante (44%). Chiudono le top 5 l’installazione di pannelli solari o altri dispositivi per generare energia pulita (37%) e l’acquisto da fornitori e produttori che dispongono di adeguate certificazioni che garantiscano la sostenibilità dei prodotti acquistati (34%).

Tra i vantaggi maggiori gli imprenditori rilevano un ambiente di lavoro più sano e sereno (87%), un risparmio economico sul medio e lungo termine (73%) e un incremento della reputazione dell’azienda in ottica CSR (62%). Una vera e propria tendenza che coinvolge principalmente le imprenditrici rispetto ai colleghi: tra le donne infatti la percentuale sale all’80%, soprattutto nelle grandi aree industriali del Centro-Nord.

Naturalmente i benefici sono interni ed esterni all’aziende, riguardano infatti oltre che il benessere in ufficio anche un risparmio economico sul lungo periodo e lo sviluppo di benessere sociale.

Molti imprenditori, però, nonostante la loro volontà, trovano alcune difficoltà nel concretizzare le proprie idee indirizzate alla sostenibilità. Ad esempio il 48% ritiene che siano il Governo e le amministrazione locali a dover favorire l’investimento in nuovi macchinari e strumenti amici dell’ambiente attraverso sgravi fiscali e sovvenzioni. Il 35% degli imprenditori invece lamenta la poca collaborazione di una parte dei propri dipendenti a mettere in atto semplici accorgimenti come la raccolta differenziata e lo spegnimento totale delle luci e pc all’uscita dal lavoro, o sottolinea l’elevato costo di alcuni prodotti certificati o realizzati con materiali di recupero (22%).

Ma quale è l’identikit dell’imprenditore “green” italiano? L’80% delle donne e il 64% degli uomini ha dichiarato di aver già messo in pratica, o ha intenzione di farlo, atteggiamenti sostenibili per la propria azienda e per i dipendenti. Tra di loro la maggior parte è under 45 (85%), mentre la percentuale scende al 59% tra i 46 e i 70 anni. Il fenomeno, più marcato nelle grandi città del Centro-Nord, vede in testa gli imprenditori dell’area di Milano (77%), seguita nella top 5 da Roma (75%), Torino (74%), Bologna (72%) e Napoli (68%).

La maggiore sensibilità al tema dell’eco-sostenibilità del genere femminile è già stata confermata da uno studio di Patricia Braun, professoressa della University of Ballarat in Australia, pubblicato sull’International Journal of Gender and Entrepreneurship, da cui è emerso che le imprenditrici di piccole e medie imprese, sottoposte a un questionario sulle politiche green in azienda, esprimono un maggiore livello di attenzione in circa il 50% delle domande.
Nel corso dell’esperimento invece, su 30 partecipanti, ben 6 uomini su 15 hanno abbandonato il progetto, facendosi sostituire da colleghe o giustificandosi affermando di non avere tempo.

Fonte: Ufficio stampa Conlegno, Consorzio servizi legno sughero.*

 

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Il fenomeno dello spreco alimentare nella Food Economy

Per creare le basi per una seria lotta allo spreco alimentare occorre lo sviluppo di azioni comuni tra agricoltori, produttori, distributori e consumatori. Governi, istituzioni, agenzie ed associazioni devono fare la loro parte, individuando i punti critici delle filiere agroalimentari e definendo gli strumenti legislativi, tecnici e comunicativi necessari per riportare il sistema dei beni alimentari ad un livello dignitoso di sostenibilità etica, ambientale ed energetica.


La Commissione Europea riporta per il settore agricoltura e industria agroalimentare in Europa, nel complesso delle sue diverse filiere (dai campi alla tavola), un valore economico di 3.600 miliardi di Euro (ec.europa.eu/competition/sectors/agriculture). La diffusione di sistemi produttivi innovativi, di processi di trasformazione, confezionamento e certificazione, nonché la riscoperta e la valorizzazione di specie vegetali locali, hanno fortemente contribuito all’affermazione dei beni alimentari nei confronti dei consumatori europei. Il packaging, le procedure per garantire sicurezza e tracciabilità, i prodotti di IV e V gamma, alimenti  nutraceutici, biologici e vegani, caratterizzano ormai l’offerta dell’industria agroalimentare per rispondere alle richieste dei consumatori sempre più condizionati dai cambiamenti degli stili di vita e dei tempi di lavoro che hanno fortemente incentivato l’acquisto di “cibo pronto” presso la Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Questa situazione, se ha favorito lo sviluppo della Food Economy ha, sebbene indirettamente, spinto le multinazionali del settore agricoltura e industria agroalimentare a sostenere la strategia commerciale di coltivare specie e varietà vegetali in numero sempre più ridotto al fine di massimizzare la specializzazione dei processi produttivi e la qualità commerciale dei prodotti, con gravi conseguenze per la biodiversità vegetale (Tabella 1). 

 

250.000

sono le specie di piante identificate

80.000

sono considerate eduli

150 

sono coltivate

12

forniscono il 90% dell’energia alimentare del mondo

3

forniscono il 60% dell’energia alimentare a livello mondiale (frumento, riso, mais)

Tabella 1. Dati sulle risorse vegetali utilizzate in agricoltura e nell’industria agroalimentare

 

Tra le conseguenze associate a questa “deriva commerciale” dei beni alimentari è certamente significativo sottolineare che mediamente soltanto un decimo di tutta l’energia consumata dal settore agricoltura e industria agroalimentare viene restituita con i prodotti sotto forma di energia alimentare (Tabella 2). A questo riguardo, l’energia consumata in Europa da sistema dei beni alimentari rappresenta il 26% dei consumi totali di energia mentre a livello globale la FAO stima una quota superiore al 30%, basandosi però su dati spesso incerti e provenienti da fonti diverse. In Italia, i consumi di energia del sistema agricolo-alimentare rappresentano circa il 13% dei consumi totali (ENEA, Energia, ambiente e innovazione, 2/2016)

 

Prodotti alimentari (consumi considerati)

Energia consumata   (kcal/kg)

Energia per kg di prodotto (kcal/kg)

Carne fresca (stalla, macellazione)

4.712

1.100,6

Carne surgelata (stalla, macellazione, refrigerazione)

7.007,8

1.100,6

Vegetali freschi in campo (fitosanitari, lavorazione terreno) a)

187

206,3

Vegetali freschi in serra riscaldata (fitosanitari, combustibile) b)

5.245,1

206,3

Ortaggi IV gamma c) (produzione, lavorazione, trasformazione)

4.213,3

189,1

Ortaggi surgelati (produzione, lavorazione, trasformazione, refrigerazione) c)

5.847

189,1

Tabella 2. ENEA su dati ISTAT, 2013.

a) I valori dell’energia consumata sono stati riferiti a 15 kg/m2/anno. Il trasporto non è incluso. 

b) I valori dell’energia consumata sono stati riferiti a 25 kg/m2/anno. Il valore energetico medio è riferito a: lattuga, pomodoro, peperone, cetriolo, fragola. Il trasporto non è incluso. 

c) Valore energetico medio di: lattuga, pomodoro, peperone, cetriolo (trasporto non incluso). I valori energetici sono stati tratti dalle tabelle composizioni alimenti dell’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione).

 

Secondo la Dichiarazione di Roma del 2014, la FAO ha stimato in circa 800.000 milioni le persone (soprattutto nell’Asia meridionale e nell’Africa subsahariana) che non hanno i mezzi per pagarsi una quantità di cibo indispensabile per sopravvivere o per condurre una vita dignitosa e le previsioni ci dicono che entro il 2030 ci saranno ancora 650 milioni di persone denutrite (www.agenda.weforum.org, 2015). Tale situazione è ancora più drammatica se consideriamo gli sprechi di cibo che annualmente caratterizzano la produzione di beni alimentari non soltanto nei Paesi industrializzati ma anche nei Paesi in via di sviluppo. A livello mondiale la produzione annuale di cibo, è stimata in oltre 5 miliardi di tonnellate, di cui non meno di 2,4 miliardi di tonnellate costituiti da frutta e verdura (mediamente l’Unione Europea fornisce oltre il 40% della produzione alimentare nei Paesi dell’OCSE). Tuttavia, la Institution Mechanical Engineers ci dice che nel 2013 almeno 2 miliardi di tonnellate di cibo sono finite nella spazzatura. Valori inferiori, ma sempre molto significativi sono stati riportati dalla FAO che ha stimato in circa 1,3 miliardi di tonnellate il cibo sprecato lungo tutta la filiera agroalimentare (Global food losses and food waste, 2011). A livello europeo, Slow Food Italia riporta 89 milioni di tonnellate di cibo sprecato annualmente dalle famiglie, mentre complessivamente sono 180 kg di cibo pro-capite che annualmente risultano sprecati (Last Minute market, 2015). La tabella 3 mostra lo spreco famigliare registrato in alcuni dei maggiori Paesi europei. 

 

Paese

Kg 

Inghilterra

110

Italia

108

Francia

99

Germania

82

Svezia

72

Tabella 3. Lo spreco di cibo a livello domestico

 

Nel mondo occidentale industrializzato,lo spreco alimentare avviene soprattutto nella fase finale della filiera dell’agroindustria (supermercati, distribuzione e famiglie) mentre nei Paesi in via di sviluppo gli sprechi sono particolarmente rilevanti nelle fasi finali della filiera, cioè nella produzione, raccolta e dopo raccolta (conservazione), soprattutto per la mancanza di mezzi e tecnologie. In Italia, il fenomeno dello spreco alimentare, venuto all’attenzione delle istituzioni e dei media soltanto negli ultimi anni, risulta tra 10 e 20 tonnellate per un valore di circa 37 milioni di Euro, distribuiti tra i diversi comparti dell’agroindustria (Tabella 4), corrispondenti a circa lo 0,5% del PIL (Last Minute market, 2015).

 

Comparto

%

Ortofrutticoli acquistati

17

Pesce

15

Pasta e pane

28

Uova

25

Carne

30

Latticini

32

Tabella 4. Lo spreco di cibo nell'agroindustria

 

Filiera

%

Produzione

2,8

Trasformazione

0,4

Famiglia

43

Altri attori della filiera

57

Tabella 5. Lo spreco di cibo nelle filiere agroalimentari

 

In particolare, la Tabella 5 mostra le percentuali dello spreco di prodotti alimentari in relazione alle diverse fasi della filiera agroalimentare (Politecnico di Milano, 2015). Infine, l’ISTAT riporta che non meno del 3% della produzione totale di prodotti agricoli alimentari rimangono sul campo in quanto non vengono raccolti. Si tratta di oltre 18 milioni di tonnellate di prodotti (Tabella 6) che spesso vengono considerati come scarto semplicemente perché non presentano forme qualitative (colore, dimensioni) apprezzate dal mercato (soprattutto nelle filiere produttive degli ortaggi e dell’uva). Ulteriori 2 milioni di tonnellate di cibo provengono dall’industria di trasformazione e conservazione dei prodotti agroalimentari. Inoltre, sono da aggiungere altre 250.000 tonnellate che si perdono nelle fasi di distribuzione della GDO.  

 

Prodotto

%

Cereali

28

Ortaggi in pieno campo

20

Ortaggi in serra

11

Uva

16

Olive

9

Legumi e patate

6

Frutta

6

Tabella 6. Lo spreco di cibo a livello della produzione dei prodotti agroalimentari

 

Oltre che nelle filiere agroalimentari, gli sprechi caratterizzano anche il settore della pesca, dove l’Environment Programme delle Nazioni Unite riporta che gli scarti totali annuali di pesce a livello mondiale ammontano a 30 milioni di tonnellate e che soltanto metà del pescato viene consumato (Tristram Stuard, 2009). Secondo la FAO al cibo sprecato va associato l’impiego di 1,4 miliardi di ettari di suolo (circa il 30% dell’area utilizzata a livello globale), 250 chilometri cubi di acqua e circa 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra (per l’Italia si stimano 4 milioni di tonnellate di CO2 emesse a carico degli sprechi agroalimentari lungo tutta la filiera). Complessivamente i costi dello spreco alimentare sotto il profilo economico, ambientale e sociale (full-cost accounting), sono stimati in 2.600 miliardi di dollari all’anno (FAO, 2013). In questo contesto, tuttavia, abbiamo il paradosso costituito dal fenomeno sociale dell’obesità, che secondo l’OMS, (Organizzazione Mondiale della Sanità) interessa circa 2 miliardi di persone. I Paesi dove il fenomeno dell’obesità è più evidente sono le isole del Pacifico seguite da Stati Uniti, Germania ed Egitto. L’Italia risulta al 73esimo posto in questa classifica. Si stimano a livello globale 155 milioni di bambini sovrappeso contro i 140 milioni di bambini sottopeso (UNICEF, 2013). Il tema dello spreco alimentare, che nella sua accezione generale possiamo riferire a “perdite alimentari”, “spreco di cibo”, “spreco di alimenti”, “rifiuti alimentari” (Tabella 7) si trova oggi al centro di un forte dibattito in molti paesi dell’ Unione Europea per le sue implicazioni di carattere ambientale, energetico, economico e anche etico.

 

FAO

Food loss

 

(Perdite alimentari)

La diminuzione in quantità o qualità del cibo, costituita da prodotti agricoli o ittici per il consumo umano

FAO

Food waste

 

(Spreco di cibo)

Si riferisce allo scarto o all’uso alternativo (non alimentare) di cibo per il consumo umano

Commissione europea

Food wastage

 

(Spreco di alimenti)

Si intende l’insieme dei prodotti scartati dalla catena agroalimentare che – per ragioni economiche, estetiche o per la prossimità alla scadenza di consumo, seppure ancora commestibili e quindi potenzialmente destinati al consumo umano – sono destinati ad essere eliminati o smaltiti

Commissione europea

Food waste

 

(Rifiuti alimentari)

Si intende ogni sostanza commestibile, cruda o cotta, che viene scartata

Tabella 7. Definizioni di riferimento per lo spreco di cibo.

Nota: Smil V. (2004) nella definizione di spreco alimentare inserisce anche la sovralimentazione delle persone ossia la differenza tra la quantità di cibo che un individuo consuma e la quantità di cui avrebbe realmente bisogno.

 

Il tema degli sprechi alimentari è ormai affrontato da buona parte degli organismi internazionali e del mondo scientifico che si occupano dei problemi che riguardano la produzione, il consumo e la distribuzione del cibo oltre agli sprechi che hanno ormai raggiunto dei livelli non più accettabili dalla comunità internazionale. L’Unione Europea ha iniziato ad affrontare il problema degli sprechi alimentari a partire dal 2005 con la “Strategia tematica sulla prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti (COM 666/2005) per arrivare alla Comunicazione 571/2011 “Tabella di marcia verso un’ Europa efficiente nell’impiego delle risorse (European Commission 2011a) che proponeva di dimezzare lo smaltimento della frazione edibile dei rifiuti alimentari nella UE entro il 2020. Quindi con la Comunicazione 397/2014 (European Commission 2014a) la Commissione Europea sottolineava la necessità di ridurre i rifiuti alimentari di almeno il 30% nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2017 e il 31 dicembre 2025. Infine, la Comunicazione 398/2014 (European Commission 2014/b) ha proposto un intervento su tutte le filiere alimentari che caratterizzano la produzione e i consumi dei prodotti agroalimentari da parte di tutti gli Stati membri con un target di riduzione del 30% riferito ai differenti comparti della fabbricazione, vendita al dettaglio e distribuzione, servizi di ristorazione e ospitalità e nuclei domestici. Per quanto riguarda l’Italia, il Governo ha emanato la Legge 19 agosto 2016, n.166 “Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici ai fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi”. Il fenomeno dello spreco alimentare soltanto recentemente è stato preso in seria considerazione dalle agenzie internazionali e dalle istituzioni a livello europeo e internazionale. Molto probabilmente i problemi creati dalla crisi economica e finanziaria, che ha colpito il mondo nell’ultimo decennio insieme con i problemi associati al fenomeno della migrazione da Paesi dell’Africa per motivi legati alla mancanza di cibo e di acqua e dal vicino oriente soprattutto per motivi associati alle guerre e alle religioni che condizionano la vita di milioni di persone, ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica e dei governi sugli sprechi di cibo e di risorse per ottenerlo.

Lo spreco di cibo presenta anche risvolti importanti sulle risorse impiegate per produrlo, soprattutto acqua, suolo ed energia ma anche in termini di emissioni di CO2 associate all’energia utilizzata per produrlo. Il fenomeno dello spreco alimentare richiede interventi di tipo orizzontale non facilmente attuabili se teniamo conto dei numerosi impatti e delle implicazioni associati all’industria del cibo sotto il profilo sociale, ambientale, politico ed economico. In prima approssimazione il riuso del cibo non consumato sembrerebbe la migliore delle opzioni ma questa soluzione richiede un impegno organizzativo non indifferente da parte dei diversi soggetti sia pubblici sia privati che hanno responsabilità lungo la catena alimentare. Un’altra opzione che potrebbe essere perseguita sul cibo non consumato consiste nel riciclo soprattutto della componente organica in processi di produzione di compostaggio per la produzione di biogas (se teniamo conto che il potere calorifico del biogas è pari a 5.500 kcal/m3 allora, in cogenerazione, da 1 m3 di biogas si possono produrre circa 2 kWh di energia elettrica e circa 3 kWh di energia termica) (C.R.P.A., Energia dal biogas, PSR 2007-2013). A tal proposito, in Italia con il Decreto 29 dicembre 2016 n.266, sono stati definiti i criteri per il compostaggio di comunità di rifiuti organici. Secondo i dati del Food Sustainability Index (FSI) – indice specifico che analizza le scelte alimentari del pianeta e il valore complessivo che il cibo rappresenta – l’Italia occupa il 9° posto in termini di “Cibo perso e sprecato” nella speciale classifica stilata su 25 Paesi. Il nostro Paese, tuttavia, ha ottenuto il massimo punteggio sull’indicatore relativo alle politiche avviate per rispondere allo spreco di cibo (100 punti su 100). Molto invece rimane da fare per quanto riguarda lo spreco famigliare che ha ottenuto soltanto 29 punti su 100 e lo spreco alimentare  associato alla produzione e distribuzione di cibo che ha ottenuto invece 63 punti su 100 (Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition, 2017).

L’Unione europea ha recentemente iniziato l’elaborazione di un pacchetto di linee guida per armonizzare le stesse modalità di quantificazione dello spreco alimentare a livello europeo e per definire le misure necessarie per impedire che milioni di tonnellate di cibo finiscano quotidianamente tra i rifiuti. È ormai opinione consolidata che soltanto con lo sviluppo di azioni comuni tra agricoltori, produttori, distributori e consumatori, si potranno creare le basi per una seria lotta allo spreco alimentare. Naturalmente occorre anche l’impegno di governi, istituzioni, agenzie e associazioni per individuare i punti critici della filiere agroalimentari sui quali intervenire, i.e.: la produzione, la trasformazione, la distribuzione e il consumo, con l’obiettivo di definire gli strumenti legislativi, tecnici e comunicativi ormai indispensabili per riportare il sistema dei beni alimentari a un livello dignitoso di sostenibilità etica, ambientale ed energetica.


Fonti per approfondire:

  • Ecoscienza, N. 5 Ottobre 2014.
  • Gustavsson J. et al., Issue Paper, FAO 2011.
  • Waste. Uncovering the Global Food scandal. Tristra Stuart, 2009.
  • Geopolitica del cibo. Giancarlo Elia valori, 2013.
  • Segrè A. e L. Falasconi, 2011. Il libro nero dello spreco in Italia: il cibo. Edizioni ambiente.